
Il colore dei soldi – Paul Newman e il significato del divo
Fu dura, per chiunque non fosse perfettamente allineato con l’ideologia reaganiana, sopravvivere negli anni ’80. Lo fu anche per Martin Scorsese, che si trovò smarrito in una Hollywood sempre più burocratica e ormai disinteressata alla brutalità dei suoi drammi. Imprigionato dalla cocaina e dall’asma, sull’orlo di morire in ospedale a 35 anni pesando solo 50 chili, il regista newyorchese inizia il proprio percorso di redenzione esattamente nel 1980 con Toro Scatenato, un’opera di autoflagellazione e catarsi in cui Scorsese esaspera ogni elemento del suo cinema (attore feticcio compreso).
Dopo una tale esplosione, il cinema scorsesiano sembra voler raccogliere le proprie macerie, ricominciando da zero per trovare il proprio posto in una nuova e più frenetica America. Otterrà infine nella decade successiva la sua risoluzione, sintesi ed estasi, con il più grande affresco del cinema americano contemporaneo, Quei Bravi Ragazzi. Gli anni ’80 sono quindi per Scorsese il decennio dell’autoriflessione, del dialogo e della conciliazione con sé stesso e il mondo circostante.
Re per una notte è infatti una satira verso un nuovo e mai così forte nemico: la televisione. Freddo, clinico, in contrasto con la dinamicità di Toro scatenato, il film è l’amara risata del cinema che comprende di non essere l’unico protagonista della cultura moderna. Seguono poi opere in cui si nota un riallineamento e una ridiscussione dei grandi topoi del regista: New York (Fuori orario), il cristianesimo (L’ultima tentazione di Cristo), e il rapporto con il cinema classico americano (Il colore dei soldi).

È infatti con Il colore dei soldi che il cinema americano si incarna in un singolo elemento: Paul Newman. Scegliendo di dirigere proprio il sequel del film che ha definito per la prima volta la sua figura divistica (Lo spaccone), Scorsese pare strutturare un saggio sul rapporto che esiste tra sguardo e icona cinematografica. Come guardiamo Paul Newman? Perché guardiamo Paul Newman? Che cosa cerchiamo in Paul Newman quando lo guardiamo? Queste paiono essere le domande che muovono l’anima del film.
Nonostante l’apparenza, non ci troviamo di fronte allo stesso sguardo voyeuristico che si poterebbe trovare, per esempio, in Hitchcock. In Scorsese il peccato sta nell’atto mostrato, non nella sua visione. Al contrario, guardare è l’unica possibilità di redenzione, come perfettamente dimostrato nel finale di Silence. Si tratta, piuttosto, d’instaurare una conversazione con il proprio passato, cinematografico e non, e di comprendere ciò che ci ha lasciato, come ci ha influenzato, e cosa ci può dare ancora.

La struttura della trama de Il colore dei soldi è difatti un grande indizio. Edward Fast Eddie Nelson compare all’inizio come mentore per il giovane e talentuoso Vincent Lauria (Tom Cruise). Appena vede il suo gioco, si pone l’obiettivo di trasmettergli tutti i suoi segreti del biliardo. I primi due atti del film paiono seguire la classica struttura delle pellicole sportive in cui il vecchio e saggio maestro cerca di costruire un rapporto con il giovane e irruento allievo: litigi, riappacificazioni, lezioni di vita del maestro, inaspettati colpi di genio dell’allievo.
Eppure, a un certo punto il film si blocca, si ferma: Fast Eddie viene un giorno battuto e umiliato, e sceglie di abbandonare Vincent lasciando che continui la sua carriera da solo. Tom Cruise scompare per almeno un quarto d’ora di pellicola, e Paul Newman diventa il protagonista. Quello che sembrava un sequel diventa quindi una nuova versione (un reboot, quasi) de Lo spaccone. Ancora una volta vediamo Paul Newman cercare di riprendersi da una dolorosa sconfitta.
Per comprendere questa scelta, bisogna ricordarsi del significato che il film originale di Robert Rossen ha avuto per un’intera generazione. Uscito nel 1959, è stata una delle prime pellicole capace di segnalare la crisi dei valori e delle forme del cinema americano, ridefinendo il rapporto tra Hollywood e il suo pubblico. Con il suo stile asciutto, ultra-realista, Lo spaccone è uno dei pochi film americani in cui, come ha affermato Roger Ebert, “l’eroe vince arrendendosi, accentando la realtà al posto dei suoi sogni.” Il sogno americano non è più la grande epica dell’impegno e dell’inventiva, è semplice gioco d’azzardo. Questo ribaltamento dell’approccio al racconto, che deriva ben più dalle esperienze europee dell’epoca, ha generato a sua volta una figura di divo del tutto nuova.

Newman appartiene, anche grazie a Lo spaccone, a quella prima generazione di attori (si possono citare anche Montomery Clift, Natalie Wood, James Dean e altri) a cui non fu concesso il privilegio dell’innocenza. Il loro è stato un fascino maledetto, nato come rivalsa dalla perdita, dal disagio. Apparivano sugli schermi di una generazione di giovani americani disperatamente alla ricerca del proprio modo di esprimersi, ma oscurata dall’ombra dei genitori che avevano vinto una guerra mondiale e vissuto un’epoca di trionfo economico.
La virilità di Newman, infatti, trionfa proprio perché costantemente attaccata e umiliata: è un eroe perché in costante conflitto con la sua natura di eterno perdente. Per la prima volta nel cinema americano appare dunque qualcosa di mai visto: il paradosso, la contraddizione. È impossibile che Martin Scorsese, che aveva 19 anni all’uscita del film, non fosse stato influenzato da questa apertura a nuove forme e valori.
Il terzo atto de Il colore dei soldi è molto più che la celebrazione di quei momenti e di quei ricordi. Paul Newman, nel perdere l’allievo Tom Cruise, ritorna ad assumere i panni del perdente, riappropriandosi della natura profonda della sua icona. La scena in cui acquista i nuovi occhiali da sole è l’emblema di questo aspetto. Ecco quindi che la figura del divo smette di essere un’eco, ma diviene parte integrante della mitologia attuale, capace di generare nuovi immaginari.

Attraverso Paul Newman, Scorsese riesce a congiungere due epoche in una sola figura, facendo intuire come il suo cinema sarà sempre debitore di quell’era classica. Il confronto con Tom Cruise cessa di essere un semplice passaggio di testimone, e diviene anzi sfida, confronto e tensione irrisolvibile. Emblematico in questo senso è proprio il finale: un duello che rimarrà sempre aperto, in cui il mentore non cesserà mai d’insegnare qualcosa.
In un’America che pare voler abbandonare tutto per l’edonismo più sfrenato, Scorsese utilizza il passato cinematografico del suo paese come pilastro morale ed estetico, ricordando al suo pubblico che esistono delle icone che hanno posto problematiche che rimangono ancora irrisolte. Celebrando Paul Newman come pilastro inamovibile della cultura americana, Il colore dei soldi è una grande riflessione sui perdenti che, davanti o dietro la macchina da presa, non smettono mai di lottare.
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