
Love Life – Darsi tempo e spazio per camminare di nuovo insieme | Venezia 79
Durante la conferenza stampa di presentazione di Love Life, ho provato a chiedere al regista Koji Fukada se vi fosse qualche nesso, più o meno diretto, tra il suo film e il cinema familiare di Kore-eda, o comunque se la sua intenzione fosse di muoversi su un terreno molto vicino a quello del connazionale. Fukada ha risposto non riconoscendo modelli diretti, ma ha poi aggiunto una riflessione chiave per la lettura della sua opera: quella famiglia intesa come rifugio degli affetti e fulcro drammatico nelle immagini koreediane, diventa ora quasi soltanto un luogo pretestuoso, una porta che conduce a un ignoto e balordo destino di dolore, quindi a nuove sfide da ingaggiare con il rimosso e la solitudine. Che è, effettivamente, ciò che accade in Love Life, quando dopo la prima decina di minuti privi di asperità e grevità – anzi di sostanza e sapore quasi melensi –, il film si lancia di colpo in un tunnel senza sbocco a seguito di un’enorme sciagura. Il piccolo Keita, figlio biologico della protagonista Taeko e del suo nuovo marito Jiro, cade nella vasca da bagno mentre gioca con il suo nuovo aeroplanino e annega a causa dello svenimento, non ascoltato dai familiari che, nella stanza accanto, festeggiano la sua vittoria ai campionati nazionali di Othello.
Ecco che alla coppia di protagonisti tocca allora riappropriarsi delle propria vita, conservando (non cancellando) la traccia del proprio dolore, ma soprattutto il bisogno reciproco l’uno dell’altro, che prende ad allentarsi come conseguenza dell’arrivo di un terzo personaggio, il padre biologico di Keita ed ex marito di Taeko. L’uomo, di nome Park, originario della Corea del Sud e sordo, si presenta al funerale del bambino come una figura fuori posto, vestito di giallo e dall’aspetto disordinato, e mentre tutti attorno a lui lo osservano perplessi, figure trattenute in stretti abiti neri e nel riserbo pudico del lutto, lui schiaffeggia violentemente l’ex compagna, inferocito per la sua negligenza di madre. È senza dubbio il momento apicale in quanto ad intensità drammatica – la percezione è anche di un patetismo forse esagerato – poiché libera (letteralmente) la colpa bruciante di Taeko in un pianto esasperato, e diventa il primo passo di una riappropriazione della sua scatola emotiva, della sua venuta a patti col dolore.

Ed è inevitabile che, appartenendo il merito di questo scarto non al compagno Jiro, ma all’uomo per cui Taeko aveva sofferto in passato, la love life dei due personaggi venga messa alle corde. Taeko si allontana pian piano per darsi anima e corpo alla salvezza dell’ex marito, spiantato e senza lavoro, diseredato originario di un paese per cui il Giappone continua a nutrire sospetti. Lo fa soggiornare per qualche tempo nella casa ormai vuota dei genitori di Jiro, col balcone che concede la vista sulla sua, di casa, e giunge persino ad accompagnarlo in Corea per riavvicinarlo agli affetti familiari. D’altra parte, Jiro è reo di non saper guardare. Cercando nuovamente la ragazza che aveva lasciato per Taeko, a un certo punto sente uscire dalla sua bocca delle parole di un’importanza capitale: “Tu non non riesci mai a guardare negli occhi”. Alla fine, è sempre una questione di vista, trovare gli occhi dell’altro e accedere al suo cuore. Specie se Taeko ha, con Park, anche il dialogo silenzioso e privato del linguaggio dei segni coreano (che, guarda caso, anche il figlio Keita aveva imparato, servendosene per scherzare con la madre alle spalle del padre ignaro).
“Qualunque sia la distanza tra noi, niente mi impedirà di amarti” recita la canzone di Akiko Yano che ha ispirato il film, dandone pure il titolo. Ma per pervenire a questa conclusione il sentiero è farraginoso, a tratti pure da sconfinare (sfortunatamente) in acuti di incredulità, di scelte posticce e fuori fase rispetto alla misura del dramma di Fukada. Il regista giapponese sa procedere ad ogni modo alla ricomposizione del quadro. E in questo senso la lettura fondamentale, più degli eventi dalla visibilità macroscopica, come un terremoto e poi un matrimonio, sta nella scelta di servirsi di una passeggiata, in campo lunghissimo e senza stacchi, pronunciata nella sua intera durata. In un primo momento, Taeko fa più volte per spostarsi dalla propria casa a quella in cui alloggia Park, allontanandosi da Jiro che, da un balcone a un altro, la guarda in compagnia dell’ex marito, e prende a correre per ricomporre quello scarto, per riavvicinarsi alla moglie.

In questo spostamento di corpi la sensazione della presa di distanza è palpabile perché è il tempo ad essere messo in gioco, a tenere le redini delle immagini. Tempo della soggettività e tempo dell’oggettività finiscono per combaciare. Non serve tornare al modello vardiano di Cleo dalle 5 alle 7 per avvertire in questo gesto come la densità percettiva della distanza tra gli spazi si faccia più fisica, materica, quindi anche la sua capacità trasformativa delle relazioni tra i personaggi ne esca rafforzata. E sulla stessa negazione del montaggio si espleta la passeggiata conclusiva, ora finalmente a due, i corpi di Taeko e Jiro leggermente distanti tra loro ma che muovono nella stessa direzione, lontani dall’occhio immoto del dispositivo fino a diventare due puntini sullo schermo, quasi invisibili. Lo spazio che si ricompone come luogo da abitare assieme. Senza alcuna fretta di staccare sul nero, perché per tornare a camminare insieme, autenticamente, non si può recidere lo sforzo del gesto nella sua effettiva durata, per volare a un comodo lieto fine.
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