
Il drammaturgo segreto – Leopardi secondo Martone
Un gobbo di fronte a una sfinge gigante: in questo contrasto si annidava la scena più azzardata e forse più bella de Il Giovane Favoloso. Uscito con inaspettato successo nel 2014, il film, diretto da Mario Martone, raccontava la storia della sfortunata vita del poeta Giacomo Leopardi, dallo “studio matto e disperatissimo” dell’infanzia fino agli ultimi mesi a Napoli, come tante volte la si era sentita ripetere in infinite antologie scolastiche: eppure, grazie a uno sguardo registico tutt’altro che didattico, e men che meno didascalico, e grazie a una monumentale interpretazione di Elio Germano, Il Giovane Favoloso si era imposto come un ritratto di una sincerità spietata, uno dei biopic meglio riusciti del cinema italiano recente.

In realtà, il rapporto tra Giacomo Leopardi e Mario Martone affondava radici più antiche e più solide: già nel 2011 infatti Martone, ai tempi direttore del Teatro Stabile di Torino, aveva allestito un’originale messa in scena delle Operette Morali di Leopardi, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. A un decennio dall’allestimento dello spettacolo e a otto anni dall’uscita del film, Mimesis Edizioni compie un piccolo esperimento dando alle stampe il volume Le operette morali in scena. La teatralità di Giacomo Leopardi, co-firmato da Martone assieme ad Ippolita Di Majo, all’interno della collana Leopardiana che ha già ospitato testi accademici di studiosi come Antonio Prete o Gaspare Polizzi.

La teatralità di Giacomo Leopardi è un libro che ha un valore essenzialmente filologico, rispetto al teatro contemporaneo italiano il suo rapporto con la tradizione. Gran parte nel corpo del volume è infatti occupata dal testo della riduzione teatrale effettuata nel 2011 da Martone e dalla Di Majo a partire dalle originali Operette Morali – un lavoro di selezione e di scorrevolezza che, senza tradire le intenzioni del testo originale leopardiana, tentava di migliorarne la resa scenica. Sia prima che dopo questo lungo apparato centrale drammaturgico figurano diversi interventi saggistici di Martone e della Di Majo – che prima di diventare co-autrice di gran parte dei progetti cinematografici e teatrali del regista napoletano ha avuto una formazione come storica dell’arte.
Ognuno di questi saggi consta di poche pagine, eppure contengono delle riflessioni piuttosto dense su tematiche quali le fonti di ispirazione delle Operette Morali, le correspondances insospettate tra Leopardi e Beckett, le radici culturali dei passaggi più immaginativi della prosa o dei versi leopardiani, e, inevitabilmente, la sfida di portare a teatro un testo come le Operette e le scelte drammaturgiche e registiche necessarie per incarnarne su un palco l’immaginario.

Certo è che Martone ha un’intuizione profondissima e giusta, esposta già nel primo capitolo, Un drammaturgo segreto: parafrasandola, potremmo dire che c’è un vero e proprio paradosso nel fatto che Leopardi, indubbiamente il più “tragico” dei poeti e pensatori del canone italiano, non abbia mai composto nulla per il teatro, nessun dramma, nessuna tragedia; eppure le Operette Morali, per la loro forma irresistibilmente dialogica e progressiva, sembrano spontaneamente passibili di una traduzione teatrale, cosa che Martone dimostra vera sia per mezzo delle sue note di regia che attraverso il dispiegarsi dell’integrale testo adattato; e anche se il modello principe delle Operette va riconosciuto in certe satire menippee, il brivido della tragedia scorre profondo in certi dialoghi leopardiano, accompagnato però, bisogna dirlo, da una notevole carica di ironia di un tipo diverso e ancora più cupo di quello che i grandi autori del canone greco o latino adoperavano.

Leopardi, forse anche più di Dante, di cui Pupi Avati a breve distribuirà il biopic, è una perenne pietra di inciampo nella cultura italiana: costantemente oggetto di banalizzazioni rispetto al suo pessimismo, per non parlare di volgarizzazioni ex negativo in cui lo si contropropone come maestro di vita resilienza, raramente si è saputo portare Leopardi al di là del suo stesso mito. La via indicata da Mario Martone e da Ippolita Di Majo, sia nell’adattamento teatrale delle Operette Morali che rappresenta il fulcro del libro, che nel biopic Il Giovane Favoloso qua e là rievocato, è una via tutto sommato fresca, e ben equilibrata tra la necessità di affrontare Leopardi con sguardo moderno e l’imperativo di non tradire di una virgola il suo pensiero di fondo.
“Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso”, fa dire Leopardi al personaggio di Eleandro in uno dei dialoghi delle Operette Morali, al termine di un discorso che, peraltro, traccia una vera e propria epopea della maschera e del carnevale. In questa battuta Martone trova la formula per adattare seriamente Leopardi in teatro – senza abdicare, complice Calvino, alla leggerezza, virtù testuale ben più abnorme di qualunque ironia tragica. Del resto, in una lettera era stato lo stesso Leopardi a definire le sue Operette come un’opera filosofica – “benché scritta con leggerezza apparente”. Al tragico non spetta l’equilibrio – l’Oscillare, quello sì, sempre.
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