
Le tourbillon de la vie – Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi (Bietti)
Nata in Italia e trasferitasi in Francia da bambina – dove, prima di esordire al cinema, frequentò i corsi di teatro alla École des Amandiers – Valeria Bruni Tedeschi, in Italia, è conosciuta soprattutto per la sua carriera attoriale: vincitrice, ad esempio, del David di Donatello per la miglior attrice protagonista con due film di Paolo Virzì, Il capitale umano (2013) e La pazza gioia (2016).
Ma Valeria Bruni Tedeschi conduce in parallelo anche una carriera da regista, e come regista porta sullo schermo il vortice della vita – le tourbillon de la vie – vale a dire la fragilità umana, il senso di inadeguatezza, l’insicurezza, la crisi, la spasmodica ricerca di un equilibrio che finisce per rivelarsi complessa e dolorosa. Ed è proprio della carriera di Bruni Tedeschi dietro la macchina da presa, di quello che nell’introduzione presenta come “un cinema dell’anima, che attrae e ci racconta, una visione del mondo che ci appartiene e ci descrive”, che Benedetta Pallavidino si occupa in Le tourbillon de la vie – Il cinema di Valeria Bruni Tedeschi, prima monografia dedicata alla regista, edita da Bietti (2022) nella collana Fotogrammi.
Benedetta Pallavidino è critica cinematografica e docente di lettere. Nel 2019 ha pubblicato Anestesia di solitudini, il cinema di Yorgos Lanthimos (Mimesis), scritto con Roberto Lasagna.

In Le tourbillon de la vie, l’autrice esplora appunto l’opera cinematografica di Valeria Bruni Tedeschi, dedicando un capitolo ad ognuno dei quattro lungometraggi all’attivo al momento della stesura del saggio: È più facile per un cammello… (2003), Attrici (2007), Un castello in Italia (2013) e I villeggianti (2018). Un altro capitolo è destinato a due “regie collaterali” che puntellano la produzione registica di Bruni Tedeschi: un adattamento televisivo dell’opera teatrale di Čechov Le tre sorelle, scritto con Noémie Lvovsky, che come sceneggiatrice lavora al fianco della regista, e un documentario diretto insieme a Yann Coridian, Une jeune fille de 90 ans.
Dell’ultimo film di Bruni Tedeschi, Les amandiers, che è stato in concorso al Festival di Cannes 2022, si discute invece nell’intervista inedita alla regista, a cui è dedicato l’ultimo capitolo del volumetto. L’intervista, oltre a ragionare sul dietro le quinte della carriera registica, compresa la costruzione dei personaggi, è inoltre ricca di spunti di riflessione sulla visione della vita su cui si fonda la poetica dell’autrice, i cui film hanno sempre uno spunto autobiografico.

Sull’autobiografismo – ci dice Pallavidino – si è molto, se non unicamente, soffermata la critica italiana, senza riuscire ad andare oltre “l’allettante e insidioso scoglio del pettegolezzo”. Si tratta effettivamente di un filo conduttore nell’opera di Bruni Tedeschi, presente sin dall’esordio. La filmografia della regista è in un certo senso un diario della sua vita, un journal intime, ed è forse significativo che nei quattro film interpreti lei stessa la protagonista, così come lo è la presenza del bilinguismo (francese-italiano). Ma è molto altro: come spesso accade quando le esperienze umane vengono trasposte sullo schermo, diventando condivise e condivisibili, la filmografia di Bruni Tedeschi da personale e intima diventa universale. Se l’appartenenza di classe delle protagoniste dei suoi film – l’alta borghesia – non è di certo universale, lo sono senza dubbio la fragilità, la solitudine, il senso di colpa, il temere l’abbandono, il desiderare l’amore.

Il fil rouge dato dall’elemento autobiografico costruisce inoltre un percorso di crescita nell’arco della filmografia per le protagoniste dei film di Bruni Tedeschi. Ne è un esempio il desiderio di maternità, che si affaccia soltanto in È più facile per un cammello…, ma diventa un’ossessione per Marcéline e Louise nei due film successivi, trasformandosi poi nel desiderio di un amore vero; o ancora l’evoluzione del lutto in elaborazione del lutto. Mettere propriamente a confronto Federica, Marcéline, Louise e Anna è un qualcosa che la regista fa a posteriori, incitata proprio dalle domande di Pallavidino, individuandone punti di contatto e di distacco.
Ad evolversi nel corso della filmografia è anche il racconto del nucleo familiare. A volte allargata, altre ristretta, a volte ingombrante, altre addirittura opprimente, a volte condiziona, altre persino destabilizza: la famiglia, che Pallavidino definisce, con le parole di Zola, “un milieu sociale dal quale non si può fuggire”, è una presenza costante nei film di Bruni Tedeschi.
Il registro prominente è quello del tragicomico, che tra l’altro ben si adatta all’uso che la regista fa della teatralità: un luogo comune si trasforma in una scena teatrale, diventando una trasposizione, una mise en abyme, della vita dei personaggi.

Il tanto discusso autobiografismo, dunque, è solo il punto di partenza per esplorare l’universalità di certe esperienze umane. A Benedetta Pallavidino va il merito di aver sapientemente colto questo aspetto nel lavoro da regista di Valeria Bruni Tedeschi.
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