
Audition – Corpo e genere nel decennio perduto
Quando Audition venne proiettato per la prima volta sugli schermi del Vancouver International Film Festival, nell’ottobre del 1999, non ricevette una particolare attenzione da parte della critica festivaliera. Il film era nato dalla volontà della Omega Project – compagnia nipponica d’intrattenimento mediale – di trasporre in immagini l’omonimo romanzo di Ryū Murakami; per realizzare tale intento si era affidata alla cura di un regista esperto come Takashi Miike, che tra cinema, home video e televisione aveva già lasciato la sua impronta sul panorama audiovisivo.

La scelta del soggetto di Murakami permetteva una conciliazione stilistica fra il melodramma, l’horror e il mindgame movie, e assecondava la volontà della casa di produzione di replicare il successo del The Ring di Nakata realizzato dalla stessa Omega Project l’anno precedente – che aveva suscitato una lotta al remake e una rinnovata attenzione internazionale nei confronti del J-Horror [qui a lato un confronto tra le due locandine].
Dopo un esordio sottotono e dei risultati non eccelsi al botteghino, a mettere in luce Audition era stato il Rotterdam International Film Festival del 2000, che aveva riconosciuto al film di Miike un sostrato ideologico, tematico e di genere a dir poco controverso – dando così luogo a un dibattito e a una proliferazione della pellicola che avrebbe obbligato la critica (occidentale, in primis) a rivalutare lo statuto autoriale di Miike, considerato fino a quel momento poco più che un onesto mestierante.

A distanza di sette anni dalla morte di sua moglie, il benestante Aoyama (Ryo Ishibashi) decide di cercare una nuova compagna su suggerimento del figlio. Al fine di realizzare tale proposito, data la sua scarsa attitudine nei confronti del genere femminile in seguito alla vedovanza, Aoyama si affida ai consigli di Yoshikawa (Jun Kunimura) – produttore cinematografico a lui molto vicino che per aiutarlo indice un’audizione per un film inesistente, con l’unico obiettivo di trovare la donna adatta a impersonare il “ruolo” di moglie per Aoyama. Sono anni in cui il Giappone ha subito una flessione economica di particolare rilievo, al punto da venire ricordati dagli storici con la formula ushinawareta jūnen (“decennio perduto”): alla recessione e stagnazione economica corrisponde, agli occhi di Aoyama e Yoshikawa, una degradazione dei costumi che tradizionalmente connotavano il modello femmineo nipponico. Per questo e altri motivi, l’audizione indetta da Yoshikawa suscita l’interesse di un non-più-giovane Aoyama che, immune alle fluttuazioni della borsa in virtù di un impiego stabile e redditizio, spera di poter rintracciare nella carrellata di volti e corpi che l’audizione proietta solo per lui una donna che rispecchi il suo desiderio consolatorio di sobrietà e tradizione.
La crisi economica, ad ogni modo, influisce anche sul lavoro di Yoshikawa, che in apertura di film definisce profeticamente il business della produzione cinematografica come «una tortura»; una presa di posizione, questa, che assume la funzione di specchio metadiscorsivo dell’intera narrazione, se si considera che è proprio tramite la macchina-cinema che Aoyama entra in contatto con l’apparentemente angelica Asami (Eihi Shiina).

Questa corrispondenza rappresenta solo il primo esempio di una corposa serie di rimandi interni all’arco narrativo, attraverso i quali Miike – e, prima di lui, Murakami – mette in atto un sistema di elaborazione (anti)ideologica dei temi affrontati. La fittizia audizione, che di per sé stabilisce delle coordinate piuttosto evidenti e riduce il femminile a una sfilata di bestiame intercambiabile, fertilizza il terreno per una successiva evoluzione discorsiva: la pressione sociale sul genere femminile, la supposta virilità dell’uomo giapponese e il rapporto fra vittima e carnefice sono elementi che dialogando si offrono a repentini ribaltamenti di fronte, dando luogo in alcuni frangenti a specifiche contraddizioni interne, che lo spettatore è libero di interpretare a suo piacimento – considerando l’incertezza riguardante lo statuto della realtà che le sequenze psico-oniriche contribuiscono a creare.
In questo modo, la busta contenente i profili delle donne-immagine da sottoporre al provino trova un corrispettivo ribaltamento nella misteriosa sacca di iuta dell’appartamento di Asami; il dentice ermafrodito che il protagonista e suo figlio consumano a cena, in apertura di film, si riflette nella definizione caratteriale di Aoyama, che in seguito alla morte della moglie deve sia lavare i piatti che costituire un modello virile per il figlio; il rapporto sessuale tra Aoyama e Asami si allinea con la rappresentazione di penetrazioni carnali di tutt’altro genere.

Audition rifiuta con decisione i convenzionali limiti del visibile e del rappresentabile, e impone nel panorama cinematografico giapponese l’icona di un’irrazionale vendicatrice vestita di bianco (un agnello diabolico; un’esca irresistibile per il dentice ermafrodito), che Eihi Shiina interpreta con sincero sadismo – ma senza appiattire le intenzioni del film sul piano di un semplice revenge movie. Ne risulta un film ambivalente, mosso da impulsi eterogenei e spesso in contrasto, capace di spaziare dal femminismo alla misoginia in uno stacco di montaggio e di far intravedere allo spettatore l’oscuro bagliore della sofferenza morale e fisica di un’intera società; questioni legate al corpo e al genere dialogano e si tendono reciprocamente fino a lacerarsi. In fondo, come sostiene la virginea Asami, «del dolore ci si può fidare»: kiri, kiri, kiri, kiri…
Audition è disponibile sulla piattaforma streaming di Birdmen, creata in collaborazione con Eyelet, una piattaforma da poco arrivata in Italia e votata al cinema d’autore e festivaliero. Lo trovate qui:
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