
“Obi-Wan Kenobi” Episodio 1 – Manifesto del “Kenobismo”
Attenzione: la recensione contiene spoiler dell’episodio 1 di Obi-Wan Kenobi. | Uno spettro si aggira per Tatooine, lo spettro del “Kenobismo”. Il lavoratore, sia esso un coltivatore di umidità o uno scavatore di carcasse alienato nella ripetitività della sua mansione, si crogiola in un silicio quotidiano venerando l’unica divinità che gli è rimasta: il senso di colpa. A sollevare i lavoratori dal fardello della colpa arriva la politica, la quale offre due possibilità. La prima è un do ut des, un banalissimo baratto che chiede di vedere sé stessi come fine e tutti gli altri unicamente come mezzo; in altre parole «dimmi dov’è e avrai salva la vita». La seconda è un supplizio ancora maggiore, una scossa talmente profonda da sgretolare ogni torpore d’abitudine e costringerci al movimento. Il Kenobismo è appunto uno spettro, una tensione palpabile che chiede quel tanto di dolore in più per farci scattare, drizzare in piedi e passare all’azione.
Ma il Kenobismo era anche la tensione che si era venuta a creare attorno al personaggio di Ewan McGregor (in tutti questi anni magistralmente interpretato da un sempre in forma Obi-Wan), una tensione così forte da generare un vero e proprio culto laico, quasi una setta della Forza, che in maniera semiseria – con video, meme e articoli – continuava a chiedere quel poco o tanto in più che serviva per innescare la scossa e concretizzare un ritorno. La LucasFilm (smettiamola di dire solo Disney per favore, dato che esiste ancora) conosceva bene questo spettro e ha deciso di assecondare magistralmente questa tensione. Anzi no.

Obi-Wan Kenobi è la quintessenza del prodotto Disney+. Un film troppo lungo per essere solo un film, una serie troppo breve per essere una serie. È un fan-service che si fa da solo (praticamente un self-service) ma è anche una continua ricerca del dettaglio, della costruzione dell’immagine e della battuta scritta con lo scalpello. Soprattutto è un prodotto realizzato da persone che hanno ascoltato i fan in questi anni (e alcune di esse sono dei fan a loro volta) e dà ai fan non ciò che vogliono ma ciò di cui hanno bisogno. C’è il pianeta desertico coi due soli, è vero, ma gli spettatori vedono sabbia e spazio da troppi anni ormai, quindi meglio spostare l’attenzione su un altro inaspettato pianeta. C’è il vecchio Ben, ovviamente, ma mentiremmo a noi stessi se dicessimo che il suo personaggio in questi anni si è limitato ai soli film. La sua storia è stata esplorata in pellicole e serie animate, libri, videogiochi, parodie e i non meno importanti e già citati meme. Quindi di cosa avevano bisogno i fan di Star Wars da molti anni a questa parte? Semplice, di Star Wars.

L’episodio 1 di Obi-Wan Kenobi, pur essendo per molti aspetti qualcosa di inedito, è il più classico dei canovacci lucasiani. Un protagonista che, spinto da eventi che non è in grado di controllare, si trova coinvolto in una realtà molto più grande di lui. Gli antagonisti stanno cacciando qualcosa o qualcuno e ostentano la loro malvagità fin dai primi minuti. Il Kenobismo è quindi solleticato da un leggero senso di spaesamento nel quale urge capire subito come affrontare il male. A differenza però di Una nuova speranza, dove il male è tutto concentrato nella figura di Darth Vader, in Obi-Wan Kenobi le figure maligne sono diverse e stratificate (per non dire gerarchizzate), pur essendo tutte riconducibili alla stessa matrice. Se Vader era un male imperscrutabile, il Grande Inquisitore e Reva – rispettivamente Rupert Friend e Moses Ingram – sono a loro volta l’epicentro di una grande contrapposizione di forze, molto di più di quanto essi non lo siano con il protagonista. Reva in particolare è il motore degli eventi di tutta la serie, una forza giovane, inarrestabile e molto carismatica.

È il male quindi che ci costringe alla scelta politica di cui sopra. Il male che ci fa provare dolore, ci provoca e ci ferisce (neanche tanto metaforicamente) costringendoci alla scelta. Ecco allora che il Kenobismo scende dall’alto sui personaggi, quasi sembra di sentire il suo «Hello there!», acuendo esponenzialmente il loro tormento per liberarli dal tormento stesso. È il caso degli abitanti di Tatooine che soffrono alienati in silenzio fino a quando la loro quotidianità non viene bruscamente turbata. È il caso del Grande Inquisitore che cerca nella sua malvagità di trovare un equilibrio ma viene continuamente ostacolato da Reva. Il Kenobismo è una decisa ma composta risposta al dolore e curiosamente riguarda quasi tutti i personaggi di questo primo episodio tranne due, Owen Lars e il protagonista.

E se Owen Lars ha un valido motivo per esercitare appieno la sua libertà di scelta, ovvero non scegliere tra do ut des e un doloroso altruismo, Ben Kenobi vive in continua fuga da sé stesso, convincendosi di farlo per la sopravvivenza. È vero che a fine episodio prende una decisione, ma non si tratta di una reazione a un dolore, bensì di un esercizio di sofferenza e noi con lui. Come se si provasse a muovere un arto fratturato senza avergli prima concesso il tempo adatto a guarire. Eppure l’episodio, specialmente in una scena molto particolare, sembra quasi volerci dare tutto quello che vogliamo (sentire) ma sceglie deliberatamente di non darcela. Si tratta della speranza.
Chi sperava in un episodio sulla speranza ritrovata, parola che da sempre si affianca al nostro maestro Jedi preferito, si scoprirà piacevolmente sorpreso nel non averne. Obi-Wan Kenobi, almeno in questo episodio numero 1, sembra essere una riflessione sulla tensione e l’ipocrisia della fuga. Ci restituisce un Obi-Wan “dematurato”, mutilato molto più che semplicemente spezzato. Probabilmente non è così difficile intuire come continuerà e si concluderà la serie, visto che già conosciamo la conclusione del personaggio. Ciò non toglie però che la serie fin da questo primo episodio abbia scelto di sorprenderci e soprattutto a quale domanda intenda rispondere: se Obi-Wan dà speranza, chi darà speranza a Obi-Wan?
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