
La donna invisibile sul set – Intervista a Lucia Iuorio
Incontro Lucia Iuorio per la prima volta a pranzo, per caso. Siamo nel contesto di Ennesimo Film Festival e lei ne approfitta per farsi un giro a Modena con i suoi amici e per provare il Metaverso. Ci ritroviamo alla stessa tavolata, a parlare e a ridere di tutto e niente tra una tigella e l’altra, mentre vengo avvisata che il giorno seguente avrebbe tenuto un workshop fotografico. Ottimo, mi dico, vediamo che succede.
Domenica, a Lucia quasi trema la voce mentre racconta la sua carriera di fotografa di scena: dagli inizi, con gli scatti realizzati a suo nonno, passando per la formazione accanto a Fabio Lovino fino alle produzioni che la vedono come principale promoter, come Modalità Aereo, Che Dio Ci Aiuti, Mio Fratello, Mia Sorella, Alfredino – Una storia italiana, Guida Astrologica per Cuori Infranti, fino a una delle ultime produzioni Netflix, Lidia, sulla prima avvocatessa italiana. Ci spiega che lo scopo di un fotografo di scena è in primis quello di creare le prime immagini di promozione del prodotto filmico, che quindi serviranno da primo teaser per il pubblico (e che spesso verranno utilizzate come locandine del film o della serie), oltre a documentare il lavoro di tutta la troupe dietro le quinte. È questione di fiducia, di mutuo supporto e di, usando le sue parole, «rendersi invisibile» per non scombussolare il lavoro del regista o del direttore della fotografia, per poter finalmente raccontare il film dal suo punto di vista.

Mi puoi spiegare meglio come lavori?
È difficile da spiegare, perché io lavoro in maniera spontanea. Quando vado a fare le foto, mi immagino posizioni e colori, faccio una ricerca, studio come vorrei mettere le luci, ma quando mi trovo a relazionarmi con il soggetto, capisco come si mette a suo agio in determinati vestiti o contesti (che possono cambiare tutto quello che avevo in mente) e seguo un flusso. Io vado in blackout totale quando lavoro: inizio a fare delle cose e non mi ricordo nemmeno più come le ho fatte o come ci sono arrivata. Magari inizio a parlare, per scatenare delle reazioni. Parto sempre con una certa ansia, perché non ho idea di che cosa succederà, ma quando sono nel mio ambiente, vado. È una reazione a catena di situazioni e di informazioni. Mi affido anche al team con cui lavoro: mi fido di determinate persone che mi aiutano e che so che mi faranno lavorare bene.
Il modo in cui ti relazioni così bene con i tuoi soggetti, pensi che sia quello il tuo punto di forza?
È molto probabile. Ogni fotografo ha il suo metodo per avere il proprio scatto. A volte, ci sono fotografi che realizzano foto meravigliose da delle idee precise, e le fanno sembrare comunque magiche e naturali. Questo è semplicemente il mio metodo, o meglio, il mio modo naturale di essere. Io non sono una persona che si impone sugli altri, mi piace comprendere chi ho davanti e non forzare delle reazioni, anche per curiosità personale: com’è quella persona? Come si vorrebbe vedere? Lo faccio pure nella vita: sono socievole e mi piace parlare con tutti. La figura del fotografo c’è sempre stata nella mia famiglia, per catturare ogni ricordo durante feste, battesimi, comunioni, compleanni, che raccoglievamo in scatole piene di Polaroid. Il ricordo e il momento, unito a una composizione di luce o una posizione… credo sia stato quello.

Il fatto che molte delle tue foto vengano così naturali è dato anche dal mezzo, e si vede, come ci hai mostrato nel workshop.
È stato interessante vedere come la gente si trasforma davanti e dietro l’obiettivo. Prima mi hanno chiesto che macchina fotografica usassi… a un certo punto non me lo ricordavo nemmeno. Io in realtà mi trovo bene a scattare con pellicola, con la Rolleiflex (tra le mie preferite, tutte le foto di mio nonno e sul set di Alfredino sono state scattate così). Allo stesso modo mi trovo bene con il digitale, ma sono tutti mezzi che mi aiutano a ottenere qualcosa che mi piace esteticamente: sono tutti oggetti, me ne posso dimenticare, l’importante è fare la foto!
Mostri una grande sicurezza mentre ne parli.
Io in realtà sono una persona molto ansiosa, il supporto che ho dai miei amici e dalla mia famiglia è quello che mi dà sicurezza: anche se nessuno mi ha mostrato fisicamente cosa fosse l’arte fotografica, mia mamma mi ha sempre portato al cinema, per esempio. Ciò che vedevo, quelle scene di vita vera che la commuovevano sempre, mi ha portato a crearmi un mondo magico in cui volevo essere me. I miei amici e il mio ragazzo mi sono sempre vicini e, quando capita di avere una giornata andata per il verso storto, loro mi rassicurano e mi dicono che “tanto domani è passata”. Questo mi ha reso molto decisa, mi ha fatto capire di voler intraprendere quella strada a tutti i costi, anche se avessi finito per sbagliare, per piangere, per avere persone contro… mi ha insegnato a non mollare mai.
Tu consideri la fotografia come un’arte o una professione? Secondo te, dove inizia una e dove finisce l’altra?
Che bella domanda. È molto interessante: per me la fotografia è una professione. Io quando faccio fotografie, sto lavorando. Non esclude che sia un’arte, secondo me, poiché penso che l’arte sia frutto di qualcosa di istintivo. Nel lavoro dei vari fotografi a cui mi sono appassionata ho sempre ritrovato quest’idea di fondo, quindi le due cose possono convivere. Io, personalmente, non mi definirei mai un’artista, ma una fotografa. Se un domani quello che faccio potesse diventare un’arte, allora wow! Ma sicuramente non sarò io a deciderlo. Io sto facendo un mestiere, che mi rende felice e che trovo molto naturale fare. Se è un’arte, lo decideranno gli altri.

Guardando il tuo sito, pensavo che dietro alle tue foto ci fosse uno schema. L’uso del colore, in particolare, assume toni vibranti e quasi camp, che saltano subito all’occhio.
In realtà non c’è uno schema, perché io stessa non mi considero una persona schematica. Per i miei colori prendo tanta ispirazione dai libri che sfoglio, dalle persone che frequento, dagli artisti che ho conosciuto. Posso produrre delle foto dall’estetica pop, o in altri periodi posso avere dei set più cupi. Mi piace sperimentare e giocare con i colori, se le mie foto riescono a essere riconosciute come “mie”, vuol dire che sto facendo un percorso giusto. Dipende anche dal soggetto, se sto facendo un ritratto serio o di moda, se è un progetto personale o se c’è un art director dietro. Molte delle persone con cui ho lavorato sono state in grado di ascoltarmi e di avere un confronto con me, e quello fa molto la differenza su come lavoro. Se sono a contatto con una persona che mi fa eseguire e basta, le foto vengono vuote e non mi piacciono, perché non c’è niente di mio.
Sei sempre molto libera da ogni restrizione. Tu stessa hai detto che preferisci le foto di promozione perché «le dirigi tu». Allo stesso tempo sul set, circondata dalla troupe, non senti la pressione di una possibile autorità, che ti dà un tempo limitato per fare il tuo lavoro?
Eccome! Ma quando mi trovo nel momento giusto per scattare, non la sento più. La sento giusto fino a un momento prima di scattare, e vale la regola del blackout. A volte non smetto nemmeno di scattare, da tanto sono presa! In quelle situazioni sento la pressione, perché sento di star “rubando” del tempo a un gruppo di persone che lavora tanto quanto me, usando la luce del set impostata da altri per un tempo limitato, ma lo faccio sempre con rispetto e a mio modo. Alla fine vengo apprezzata per questo e mi ricavo uno spazio nella grande famiglia della troupe.

Secondo te, nella tua professione c’è più un rapporto fotografo-produttore o un rapporto fotografo-pubblico (che è il primo a ricevere le foto che scatti)?
In realtà, il vero rapporto è con il film. Il produttore stabilisce solo un contatto pratico: è lui che ti chiama, ti paga, ti fornisce indicazioni ma non se ne intende di fotografia, quindi non discuto con lui di come si fanno le foto. Il rapporto è con il film così come con gli attori, il regista, la troupe, il set. Ho delle direttive iniziali, che mi dicono di concentrarmi su attori precisi, per raccontare il film e il suo sviluppo. La troupe ti deve fare spazio e tu stesso te lo devi guadagnare nel rispetto comune: loro stanno facendo un’operazione a cuore aperto, curata nei minimi dettagli, e mentre lavoro non posso disturbarli per aggiustarli a mio piacimento.
La naturalezza è il tuo cavallo di battaglia. C’è un modo in cui ti prepari, prima di andare sul set?
Leggo sempre le sceneggiature, per capire i personaggi e soprattutto le difficoltà che avranno gli attori per quello che andranno a fare. L’ho imparato a mie spese, agli inizi, quando non le ricevevo nemmeno perché lavoravo solo per sostituzioni: mi è capitato di andare sul set senza leggere la sceneggiatura, e mi sono mancati i riferimenti per fare le fotografie ai soggetti che contavano, i protagonisti e le scene salienti. Determinate produzioni, come Netflix o Sky, tengono a mandarti proprio il moodboard del film: i colori, le palette, l’anteprima dei costumi, l’estetica generale del prodotto filmico, che mi permettono già di immaginare il lavoro che andrò a fare. Il più delle volte, tuttavia, tutto quello che dico o faccio non è più quello che avevo previsto: c’è una base di preparazione, ma sul set vado a braccio e mi lascio guidare dall’ispirazione.

Com’è stato lavorare su Lidia?
È stata un’esperienza bellissima. Tutti siamo partiti con quell’aspettativa di voler fare tutto al meglio, perché sentivamo di star lavorando a un progetto importante. Ognuno si chiude nel suo mondo e solo dopo si rilassa, quando le cose iniziano ad andare bene. Con Matilda [De Angelis, ndR] ne abbiamo passate tante assieme sul set, quindi ora siamo diventate grandi amiche, com’è capitato con il cast di Guida Astrologica per Cuori Infranti. Siamo tutti vicini, ci vediamo spessissimo, se hanno bisogno di foto mi cercano ed è un piacere lavorare con loro. La fiducia che ognuno ha nell’altro conta moltissimo e il lavoro viene bene per quello.
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