
Di corse e materassi ad acqua – Licorice Pizza
Come si potrebbe scrivere di un film che non inizia e non finisce mai? Che nel suo farsi continua a rinnegarsi, a distruggersi e ri-crearsi in un’immagine senza una direzione se non quella imposta da micro-impulsi, corse sfrenate e sguardi? Licorice Pizza non ha una struttura narrativa descrivibile: il suo procedere si basa su frammenti, dialoghi, si sostiene grazie alla leggerezza dei corpi di Alana e Gary che, come ha scritto Roberto Manassero, «non hanno nemmeno bisogno di una trama per essere personaggi: basta il cinema». E sì, basterebbe il cinema per garantire loro un’esistenza; anzi, il cinema è necessario per far sì che esistano nell’immaginazione invadente di Paul Thomas Anderson, e poi nella nostra. Per scrivere di Licorice Pizza bisognerebbe forse ricercare il piacere stesso che spinge lo spettatore a restare attaccato al centro dell’immagine, a rincorrere una sequenza o una carrellata che potrebbero non chiudersi mai. Quando una carrellata si chiude in un film di Paul Thomas Anderson s’arresta su due corpi che si scontrano: impigliati sotto la pioggia di Los Angeles come Larry e Shasta in Inherent Vice, o goffamente distesi a terra dopo un abbraccio sotto l’insegna luminosa di James Bond – Live and let die, come quelli di Alana e Gary.

Come già in Boogie Nights e Inherent Vice tornano Los Angeles, la San Fernando Valley e gli anni settanta, che sono definitivamente una sorta di cronotopo nella cinematografia di Anderson, attratto maniacalmente a luoghi e figure del sottobosco hollywoodiano, che tanto ha nutrito le sue fantasie di bambino e che porta con sé, come già era stato in Boogie Nights, personaggi, reali o immaginari, tanto caricaturali e tanto volutamente stereotipati nei gesti e nei toni vocali da canzonare loro stessi e gli universi cinematografici che implicitamente citano. Come Jack Holden, che avvolto nel fumo di una sigaretta, richiama il William Holden di Billy Wilder (riferimento imprescindibile per il film); ma pure Tom Waits, Jon Peters, George DiCaprio o il guardone fuori dagli uffici di Wachs che appare come una brutta copia di Travis Bickle di Taxi Driver. Un universo che entra addirittura nel titolo in riferimento allo storico negozio di dischi californiano (Licorice Pizza, appunto).
E Gary, quindicenne, interpretato in un continuum genealogico da Gary Cooper, figlio di Philipp Seymour morto nel 2014, sembra uscire, ancora una volta, da quel mondo, seppure in realtà presto si riconosca la sua natura metamorfica, trasformatrice: prima attore, one-man show, venditore di materassi ad acqua – grande moda della Los Angeles di quegli anni – poi ancora proprietario di un locale di flipper. Basterebbe la corsa di Gary e il fratello alla ricerca di benzina per i loro materassi di vinile sulle note di Life on Mars? di David Bowie e l’esclamazione di Gary «It’s the end of the world» per riassumere tempi e luoghi del film. La crisi petrolifera del 1973 come fine del mondo a cui i giovani non badano, tanto che dopo la discesa in contromano con il camion in panne, le taniche di benzina vengono usate per alludere a giochi sessuali. Dall’altra parte, come in un doppio femminile generato direttamente da un montaggio parallelo, Alana, venticinque anni, ebrea, terza di due sorelle, anche lei come Gary di una bellezza non definibile, si muove lungo le strade in salita della San Fernando Valley trasformandosi: prima compare con in mano un pettine e uno specchio dove presto si riflette il volto di Gary, poi attrice improvvisata e volontaria negli uffici del candidato sindaco Wachs (ovviamente Joel Wachs).

La trama si conclude qui, perché Licorice Pizza è un film di incontri, scontri, separazioni, rifiuti e consensi, corse e cadute. Gary e Alana sono prima di tutto corpi, la loro evoluzione psicologica non interessa, né i motivi per cui si innamorano, né perché si ostinano a correre. Sono corpi creatori di spazi. Alana casca da una moto e Gary si fionda verso di lei lasciandosi la folla dietro; Alana cerca Gary e Gary cerca Alana. In questi movimenti di macchina e di corpi Licorice Pizza lisergicamente si libera di ogni gabbia narrativa, di ogni costrizione ad avere un senso unico e indivisibile. Prende tante strade quante ne prendono i suoi personaggi, che sono fantasmi di fantasia e d’infanzia: per questo le strade potrebbero essere infinite. Licorice Pizza sembra continuamente abbandonarsi alle possibilità innumerevoli di una storia aperta. Per Alana è sufficiente un manifesto politico per candidarsi come volontaria; per Gary è sufficiente origliare una conversazione per decidere di aprire un negozio di flipper. Resta spazio anche per l’errore, quando Gary viene arrestato e portato alla centrale di polizia per sbaglio.

Allo stesso modo i tempi filmici si dilatano durante una conversazione muta fatta di respiri da telefono a telefono, e si accorciano e velocizzano nei dialoghi dalle parole ripetute e moltiplicate dove Anderson esprime il meglio della sua scrittura. Il nome di Barbra Streisand, che oltretutto fisicamente ricorda un antecedente divistico di Alana, diventa, nel dialogo tra Gary e Jon Peters (Bradley Cooper), oggetto di bisticcio linguistico; e lo stesso film comincia in medias res dentro ad un dialogo dove uno specchio inquadra il volto di Gary desideroso di uscire a cena con Alana, che ripete le cose sempre due volte, a detta del ragazzo.
Teen drama, commedia o coming of age. In realtà Licorice Pizza rifiuta ogni genere, scrollandosi ogni gravosa etichetta. L’età non ha importanza, dice Gary in una delle prime battute del film. La commedia ride di sé stessa, il cinema ride di sé stesso. Lo spettatore, durante la visione, ha tra le mani soltanto l’osso dell’immagine e del suo movimento, la sua spinta essenziale. Un’immagine immancabilmente musicata, da Nina Simone a Paul McCartney, da Chris Norman e Suzi Quatro a Sonny & Cher, fino all’onnipresente Jonny Greenwood, i cui archi scandiscono l’ultima corsa mozzafiato. E chi può dire se sia davvero l’ultima.
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[…] Paul Thomas Anderson | USA. Nell’assenza di una struttura narrativa unidirezionale, PTA ritorna a tempi e luoghi del suo immaginario privato (e d’infanzia) e cinematografico. Ad Alana e Gary basta il cinema per esistere, muoversi, correre e definire in corsa le traiettorie dell’immagine e dei loro destini, inscritti nello scenario della crisi petrolifera del 1973. Teen drama o coming-of-age non ha alcuna importanza, perché Anderson lascia lo spettatore in balìa del suo sguardo, alla potenza dell’amore: unica meta. Leggi l’articolo completo di Luca Mannella […]