
Paul Thomas Anderson e il cinema come eredità paterna
In più di venticinque anni di carriera, Paul Thomas Anderson ha saputo unire alla perfezione formale delle sue opere uno sguardo affezionato e profondo ai suoi personaggi. Il suo è un cinema sontuoso e complesso che se da una parte sembra attingere al vitalismo tecnico-espressivo del periodo d’oro degli studios, innovandolo, dall’altra non rinuncia all’approfondimento psicologico del soggetto.
Nei suoi otto lungometraggi, ricorre la presenza di esistenze dolorose, scisse, alla vorace ricerca di un destino. In questo senso, la sua è una poetica umanista che non si lascia raffreddare da uno stile magniloquente e articolato. Al centro delle sue opere si staglia sempre il personaggio, poco importa se incontrato alla fine di un virtuoso piano sequenza in un night o se rifratto dalle inquadrature interne e deformate di una cucina.
In fondo, proprio nella Hollywood classica si consolidava un modello narrativo dominante nel cinema del tempo, in cui il personaggio singolo fungeva da perno, vettore funzionale a tutto il racconto. Bastava un desiderio forte e nitido e un tragitto cristallino per raggiungerlo. Era il tempo del protagonista unito, un soggetto senza inconscio, dotato di una solida coerenza tra desiderio e azione per soddisfarlo.

Come al tempo, in Anderson il personaggio è centrale, granitico, monumentale, in stretta relazione col periodo storico portato in scena, un soggetto topico che permea la fascinazione e la connotazione narrativa di tutto il film. Fragili, malvagi, abbandonati, i suoi protagonisti tiranneggiano sul film, ne riempiono ogni anfratto. Ma se il protagonista classico era cristallino, dialogico, lineare, quello di Anderson sembra negare dall’interno la sua funzionalità enunciativa apparentemente tradizionale, attraverso una scrittura spezzata e laconica che avvicina il suo stile alle abitudini narrative di un certo cinema d’autore europeo.
Quelli del regista californiano, sono soggetti feriti, corpi muti in cui azione e desiderio non dialogano tra loro, individualità restie a conoscere sé stesse e il loro destino. Sono esemplificative di un’innovazione narrativa che trae le sue mosse dal protagonismo dubbioso e amaro del noir anni ‘40, passa per la New Hollywood e arriva al cinema indipendente americano degli anni ’90, per l’appunto.
È spesso una figura paterna a incontrarle, istruirle e in qualche misura a condannarle. Sono istanze demiurgiche, carismatiche e autoritarie, ma in qualche modo sempre colpevoli o fasulle. Questi mentori-maestri infatti sono ibridazioni di diversi archetipi narrativi, sono saggi aiutanti ma anche antagonisti tirannici, recalcitranti a lasciare liberi i propri discepoli. In ogni caso, sono indispensabili al personaggio quanto al film stesso, dando loro il via all’incedere della narrazione. È infatti grazie a questo padre putativo che possono scoprire chi sono o vogliono essere, de-responabilizzarsi, e appartenere finalmente a qualcuno o qualcosa: un procedimento che li rende docili e vinti agli occhi dello spettatore, ma anche in continua balìa, in qualche modo distratti e slegati dal film stesso, dalla necessità di un rapporto causa-effetto.

Già in Sydney (1996), l’intero rapporto tra il giovane John e il vecchio Sydney è giocato sulle ellissi, sul non-racconto, e in generale su un tipo di cinema che non ha paura di prediligere i personaggi all’intreccio, facendoli esistere su due superfici distinte, comunicanti, ma non indissolubilmente legate. Come se quelle due figure di giovane e di maturo, sostassero in bilico tra il narrato e la narrazione, quasi come a restituire l’idea stessa che ha Anderson del cinema.
Questo rapporto peculiare e ricorrente echeggia la stretta dialettica che esiste tra il cinema passato e i film di Paul Thomas Anderson, tra lo sguardo totale e lo sguardo intimo e personale. La storia del cinema in Anderson non è infatti da intendersi solo come citazionismo postmoderno o come omaggio commosso, ma come inevitabile sostrato artistico-espressivo, base necessaria e inespugnabile da cui far partire la propria voce, il proprio racconto, per poi staccarsene, rielaborarlo, talvolta negarlo, proprio come fanno i suoi esuli personaggi all’interno dell’opera.
Gli antieroi crudeli e affascinanti dal sapore Wellesiano, le zenitali coralità Altmaniane di film come Magnolia (1999), le rutilanti e rovinose famiglie putative tipiche dei gangster movie di Scorsese, il McGuffin fallico di Boogie Nights (1997), così come le dissolvenze incrociate e le sovrimpressioni nostalgiche di Vizio di Forma (2014) e la patina visiva ruvida e dettagliata de Il filo nascosto (2017), sono elementi formali e/o diegetici strumentali al racconto di un soggetto, di uno sguardo sul mondo e di un preciso periodo storico.

La dinamica padre-figlio / mentore-allievo tornerà per quasi tutta la cinematografia di Anderson: si pensi a i padri colpevoli e inermi di Magnolia, al mentore Lancaster Dodd di The Master (2012) o all’ultima genitorialità negata de Il Petroliere (2007). Ma è Boogie Nights l’opera in cui la stretta connessione tra maestro e allievo si certifica non solo come tematica ricorrente della narrazione ma come asse biunivoco caratteristico di tutto l’impianto filmico Andersoniano.
Nella sequenza in cui, nella mezzanotte del 31 Dicembre del 1979, Little Bill si suicida, si staglia una cesoia narrativa tanto concettuale quanto storica. È la fine delle illusioni di felicità di Dirk Diggler e del malinconico bestiario che popola la casa di Jack Horner, ennesimo padre putativo che crea ma soffoca, aiuta ma opprime. È anche la fine degli anni ’80, dei suoi miti e della pellicola, che lascia il posto al videotape e ad un nuovo periodo per il mercato audiovisivo. Questa sequenza esemplifica al meglio il carattere picaresco e dialettico dell’idea di cinema di Anderson, del suo bisogno di confrontarsi con chi è venuto prima di lui e poi di tradirlo, negarlo, muoversi e andare oltre, forse inutilmente.

L’antica Hollywood fresca di avvento del sonoro, l’entusiasmo degli studios al loro apice, la goliardica vitalità espressiva con cui i vari Hitchcock, Huston, Welles e Kubrick studiavano e tramandavano nuove tecniche, punti di vista sul mondo, angolazioni narrative, rivive oggi nel cinema di Anderson, nel suo non accomodarsi mai su un genere, o almeno un tipo di storia. La sua autorialità – e quindi riconoscibilità – sta proprio nel suo asservire quel glorioso passato alla sua scrittura elegante e psicologicamente rotonda, ai suoi personaggi così fieri e vinti, umanamente onesti e attuali. Il suo è un cinema circolare, fatto di via di fughe negate e promesse tradite, un’eredità che si fa risorsa espressiva per la sua arte e al contempo condanna per i suoi protagonisti, perché se è vero che noi possiamo chiudere con il passato, è il passato che non chiude con noi.
Leggi Anche:
Paul Thomas Anderson – Una vita alla ricerca della perfezione
The Steps: il nuovo videoclip di Paul Thomas Anderson per HAIM | VIDEO
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] per tradire qualsiasi aspettativa dello spettatore. Il tentativo è chiaramente simile a quello che Paul Thomas Anderson aveva raggiunto on Vizio di Forma, ma in questo caso Mitchell si pone l’obiettivo di tradurre […]