
Il filo nascosto – Il film perfetto di Paul Thomas Anderson
Paul Thomas Anderson, classe 1970, torna in sala con il suo ottavo lungometraggio: Phantom thread, dopo tre anni da Inherent vice – Vizio di forma. L’opera vede nuovamente la collaborazione tra il regista natio di Studio City e l’attore britannico Daniel Day-Lewis, ormai sessantenne. L’attore con cittadinanza irlandese ha dichiarato che questa sarà la sua ultima interpretazione. Il filo nascosto è un film che va visto, assaporato, in cui immergersi. Per certo, l’opera conferma PTA come uno degli autori più rilevanti e interessanti del cinema contemporaneo.
Un’efficace commistione di scenografie, ambienti e costumi proietta lo spettatore nella Londra degli anni cinquanta, per lo più negli spazi eleganti e freddi della casa del protagonista: Reynolds Woodcock, un geniale stilista che insieme all’austera – e squisitamente hitchcockiana – sorella Cyril (magistrale l’interpretazione dell’attrice Lesley Manville) si pone ai vertici della moda per l’alta società britannica. Interpretato con profondità e intensità sorprendenti da Day-Lewis, il signor Woodcock è uno scapolo impenitente e abitudinario, che – come lui stesso afferma – non si è mai sposato perché non saprebbe essere fedele. Un personaggio elegante, imperscrutabile, altero, maniacalmente dedito a un’imprescindibile e ferrea routine giornaliera, e al suo lavoro, che si consuma tra le mura di casa, maison stessa dell’artista.
Il film prende vita nel momento in cui il signor Woodcock incontra una musa ispiratrice, o meglio: una nuova musa ispiratrice, Alma (Vicky Krieps).

Come in tutti i film del regista, l’oggetto dell’indagine è l’uomo. Similmente a The Master (2012), l’opera si struttura come un lento viaggio nella relazione insondabile tra i due protagonisti. Un percorso sofferto, tra vuoti e distanze abissali. A reggere l’intero film, infatti, è il dualismo manicheo tra l’amore di Alma e la chiusura respingente del protagonista, tetragono e inavvertibile. Come il signor Woodcock tesse i suoi abiti, che diventano superficie dell’animo – trascendendo il materiale stesso di cui sono composti –, Anderson tesse le maglie di un racconto intenso, che parte dalla superficie, dal visibile, per scavare nel profondo della psiche umana, tra fantasmi e passati nascosti, come i messaggi, i segreti, che il protagonista cuce nei lembi dei suoi vestiti.
La colonna sonora, composta da Jonny Greenwood (chitarrista solista dei Radiohead e già più volte collaboratore di Anderson), non si limita a confezionare e suggellare il film, bensì – quasi ininterrotta – lo incalza, diviene parte integrante della narrazione, permeando i dialoghi, le scene, gli spazi. Una realizzazione misuratissima e impeccabile, dal ritmo sempre bilanciato, forte di una sceneggiatura rigorosa ed essenziale. Il filo nascosto rappresenta forse una delle prove registiche più mature di Anderson, la cui camera incontra un’eleganza solida e sontuosa, come sontuosi sono i vestiti del signor Woodcok, pur non perdendo i suoi tratti distintivi, esaltati dalla prevalenza di spazi chiusi: continui close-up e brevi e incessanti piani sequenza, movimenti di macchina intimi, che indugiano, quasi erotici nel descrivere il rapporto del protagonista con le sue creazioni. Una regia che permette a sguardi, corpi e movimenti di parlare. Anderson realizza un’opera squisitamente classica, colta e consapevole, in cui ritroviamo in primis autori come Hitchcock, Truffaut e Kubrick (di cui vengono assorbite geometrie e atmosfere) – dichiarati autori di riferimento del regista americano.
La pellicola 35 mm, poi, è foriera di una grana densa, ieratica, in uno sposalizio impeccabile, insieme alla fotografia, tra clima della messinscena e ambientazione. Il filo nascosto è un film forse perfetto, intrinsecamente umano. Uno sguardo lucido sull’essenza dell’io, sull’amore come morte stessa, in una composizione agrodolce e smarrente.
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