
Cattelan, Breath Ghosts Blind: performance spettatoriale in tre tempi
Inaugurata il 15 luglio 2021 e conclusasi lo scorso 20 febbraio, la mostra personale di Maurizio Cattelan Breath Ghosts Blind costituisce un progetto espositivo site specific ideato per gli spazi di Pirelli HangarBicocca a Milano.
Sempre al centro di accesi dibattiti, l’opera di Cattelan ritrae la società contemporanea e i suoi paradossi. L’artista riflette sugli scenari politici e culturali, attinge a immagini di straziante attualità e rappresenta la società del proprio tempo evidenziandone gli aspetti più disturbanti e traumatici. Cattelan invita il suo pubblico a cambiare punto di vista per riuscire a cogliere la complessa ambiguità del reale, favorendo un senso di partecipazione collettiva.
«Oggi l’arte significa per me fare vedere le cose da un punto di vista leggermente diverso, da un’altra angolazione. Non sempre quello che fai è interessante o pertinente ma a volte riesci a toccare un nervo scoperto, a prendere qualcosa che è sotto gli occhi di tutti e metterlo in una luce tale da risvegliare la gente, farla pensare o discutere»
Maurizio cattelan
Spettatorialità e Performance
Ma perché analizzare una mostra sotto la lente della performance? Una delle più importanti acquisizioni a partire dal Novecento riguarda il ruolo centrale dello spettatore nella sua veste di partecipante. La stessa presenza dello spettatore, il suo occupare – e in questo caso attraversare – lo spazio, contribuisce alla realizzazione dell’atto performativo. E così anche gli ambienti espositivi di una mostra raggiungono la completezza del loro significato soltanto mediante lo sguardo e la presenza di chi li attraversa inverandone le potenzialità.
Negli ultimi anni la questione partecipativa ha visto rinnovata la sua vitalità di fronte allo stato di aprassia e passività che spesso è associato ad una condizione spettatoriale di separazione e alienazione. Dalla «fabbrica del sensibile», quale spazio del possibile in cui fare esperienza insieme agli altri di un mondo sensibile comune, descritta da Jacques Rancière; all’«alleanza di corpi» intesa come abitudine partecipativa corale di cui parla Judith Butler: la questione resta aperta. I processi di visione non possono mai essere meramente ricettivi, ma implicano sempre una forma di embodied cognition tale da stimolare continue riconfigurazioni possibili della realtà. Insomma, di fronte a un’arte che – per dirla con Mario Perniola – «non basta più a se stessa», la partecipazione spettatoriale resta ancora oggi di importanza vitale.
Ben più di un’esposizione di opere e oggetti, gli spazi ex-industriali di Pirelli HangarBicocca si trasformano in nuovi non-luoghi grazie alla “massa urbana” che li percorre. Centrale è dunque l’esserci di chi visita la mostra: il vissuto spettatoriale è la chiave di lettura privilegiata di Breath Ghosts Blind.
Opera in tre atti o tre opere d’arte
Nel coniugare opere nuove e lavoro storico, la mostra si articola in diversi momenti che affrontano temi e concetti esistenziali, come la fragilità della vita, la memoria e il senso di perdita individuale e comunitario. Una drammaturgia in tre atti e al tempo stesso tre opere d’arte distinte. Concepite nella loro unicità, sono però tutte in grado di acquisire un valore ulteriore se indagate come tappe del percorso in cui lo spettatore viene immesso.
L’osservazione emotiva partecipante dello spettatore vivifica il senso del percorso. A partire dall’analisi della singola opera è possibile rileggere e ripercorrere lo spazio della mostra nella sua totalità, cogliendo i portati emotivi dei tre tempi in cui l’esperienza è articolata.
I titoli sono fondamentali nella carriera di Maurizio Cattelan. Direi che sono una parte che contribuisce a quell’equilibrio instabile e a quella voluta ambiguità. Pertanto crea una specie di colpo nel cervello, arricchisce l’opera. Alla fine abbiamo optato come titolo della mostra per il titolo delle tre opere: Breath Ghosts Blind. Un’opera in tre atti, ma anche un’opera d’arte fatta da tre opere.
Vicente Todolì, curatore mostra
1. Breath

Per iniziare si entra in Piazza. L’ambiente è buio, l’occhio ci mette qualche minuto ad abituarsi. In fondo alla Piazza – non al centro, non a lato – un gruppo di persone si stringe attorno all’unico punto illuminato: Breath, la prima opera.
Breath è una delle nuove creazioni di Maurizio Cattelan, anche se dialoga a distanza con altri momenti della produzione dell’artista (si veda Gérard, 1999 o Untitled, 2007). Cattura e attrae magneticamente l’attenzione dello spettatore. Si è costretti a guardarla, a girarle attorno, a notarne i dettagli. Cosa rappresenta? Un uomo e un cane che dormono, probabilmente un clochard, probabilmente si conoscono. Probabilmente: non ci è dato saperlo.
La mostra si apre con un’opera che allude al tema della nascita, quasi una natività: Breath. Quest’opera molto intima mostra un dialogo tra due figure: un uomo accovacciato a terra in una posizione fetale e accanto ad esso un cane. Questo dialogo è un insieme di fragilità, di vulnerabilità, ma è anche un momento molto intimo e affettuoso. Un’immagine molto positiva, anche se non ci è dato sapere nulla del rapporto tra i due e del loro stato. Sembrano dormire, potrebbero anche sognare. Potrebbe essere l’inizio di un sogno all’interno della mostra.
Roberta Tenconi, curatrice mostra
L’opera emana calore, affetto. La sentiamo a noi incredibilmente vicina. Una scena quotidiana come il visitatore ne avrà viste chissà quante, ma che questa volta non solo nota: non può fare a meno di fermarsi ad osservarla, addirittura ispezionarla.
Breath spicca in mezzo al nero come un punto-luce, unico elemento bianco ingoiato dal buio. La scultura è realizzata in marmo di Carrara, materiale nobile che conferisce un’aura atemporale all’opera, omaggio alla statuaria classica. Il bianco lucente risalta stagliandosi contro l’enrome telone nero che la separa dai Sette palazzi celesti di Kiefer. Le altre pareti invece pullulano di piccioni tassodermizzati che fissano la scena. È la loro presenza, il loro sguardo a rendere chi entra parte e partecipe di ciò che sta accadendo.

2. Ghosts
Gli stessi piccioni sono i protagonisti indiscussi del secondo momento dell’esposizione: l’occupazione delle Navate. Presentata per la prima volta come Tourists a Venezia nel 1997, e successivamente nel 2011 alla Biennale come Others, l’opera assume il suo terzo e ultimo assetto come Ghosts al Pirelli HangarBicocca. Esempio evidente di come le opere possano cambiare in relazione allo spazio in cui si trovano, rimanendo le stesse e no – come dimostra il diverso titolo.

Sono degli occhi che ci scrutano, come se ci sorvegliassero. Viviamo in una società in cui siamo costantemente sorvegliati e in questo caso non si capisce bene se siamo noi gli intrusi o loro. Sembrano gli abitanti naturali e storici di questo luogo e mano a mano la loro presenza viene svelata.
Roberta Tenconi, curatrice mostra

Il loro sguardo cala implacabile sulla folla di passanti, uno sguardo severo che scruta e intimorisce. Colonizzatori dello spazio con la loro silente presenza, rendono l’osservatore l’intruso nella stanza mettendolo di fronte alla sua individualità.
Avvicinandosi all’estremità delle Navate si intravede quello che a prima vista sembra un enorme monolite nero. Spicca per contrasto su un fondale chiaro, perfettamente centrato e quasi incorniciato dalla luce che lo avvolge e lo fa risaltare nell’oscurità circostante. Sorge spontaneamente l’associazione con il Memoriale all’Olocausto (2005) di Peter Eisenman a Berlino.

3. Blind
Varcata la soglia, si entra nel Cubo: l’enorme monolite si erge ora nella sua interezza sovrastando chi lo guarda. Appare l’aereo incastonato nella cima. Blind è un’opera nuova, ma al suo interno la matrice terroristica da cui trae spunto è la stessa di Lullaby del 1994.

La dimensione altra a cui si accede varcando la soglia è urbana e collettiva, ma fredda e distaccata. Il primo pensiero va all’attentato di quell’11 settembre 2001 in cui Maurizio Cattelan si trovava proprio a New York, in aeroporto. È una nuova forma di monumento – o non monumento. L’autore la definisce un memoriale, legandola al senso di perdita collettivo.
Persino qui, sovrastati dall’opera e annichiliti dalla sua mole, l’occhio non può fare a meno di soffermarsi su una breve fila di piccioni tassodermizzati che scrutano tutto quello che avviene nel Cubo dalla ringhiera di una passatoia in alto, sopra le teste dei visitatori.

Il rovesciamento della partecipazione
Solo dopo essere giunti al cospetto di Blind è possibile ripercorrere controcorrente lo spazio della mostra e rileggerlo alla luce di nuove considerazioni, stimoli e significati. Ciò che emerge è il forte contrasto tra le parti, l’intrinseco paradosso della mostra in tutte le sue componenti. Dall’ingresso fino all’uscita dello spettatore dalla dimensione esperienziale, tutto è il contrario di tutto.
Esiste infatti una seconda modalità di esperire la mostra. Lo spettatore ripercorre ormai senza urgenza gli spazi appena attraversati. Il primo sguardo era frenetico, curioso e affamato di novità. Un secondo sguardo più pacato riesce invece a leggere la stretta relazione di tutti gli elementi, la sinfonia minutamente orchestrata del (non) luogo urbano in cui si è immersi.

Ed ecco che il contrasto esplode in tutta la sua forza nell’accostamento di Breath e Blind. Da un lato una tragedia individuale, personale, insignificante nella vastità dell’urbano, nel frenetico via vai di incontri casuali. Quest’uomo marmoreo non è poi distante dai tanti clochard in cui i passanti metropolitani si imbattono ogni giorno. Qui però il passante è costretto a fermarsi: è il contesto a imporglielo. La quotidiana indifferenza per la sorte del singolo cede il posto a un sentimento di calda vicinanza e intima condivisione. L’attenzione all’individuo diventa prioritaria. Per contro, l’immenso monolite, che si staglia a rappresentare la catastrofe collettiva a conclusione della mostra, è freddo e glaciale. Lascia sbalorditi per le sue dimensioni e per la portata dell’avvenimento che rievoca, ma di fronte all’enorme ammasso di resina nera nulla sembra restituire lo strazio della catastrofe.
Le dimensioni delle due opere dunque rimandano alla portata e alla risonanza provocate a livello soggettivo e comunitario dall’evento che narrano. Tuttavia le dimensioni delle opere restano solo inversamente proporzionali al riscontro emotivo e all’attenzione che le stesse trovano nel pubblico della mostra. A sottolineare ulteriormente questa contrapposizione concorre anche la componente cromatica. Da un lato le bianche sagome di figure viventi completamente avvolte dal buio dello spazio circostante; dall’altro il nero blocco di resina inanimata che troneggia sul chiarore delle pareti del Cubo.

Dalla nascita, delicata nel suo calore – il clochard in posizione fetale – alla morte che raggela e irrigidisce – l’aereo emblema di una strage. Tutto assume un nuovo significato in relazione alle contrapposte suggestioni evocate dalle opere. Cattelan sintetizza così simbolicamente il ciclo vitale: in un paradossale rovesciamento di partecipazione di fronte alla vita e alla morte.

Prima di andar via, un ultimo sguardo all’ingresso-uscita dell’Hangar. I piccioni che hanno accolto i visitatori con la loro invadenza, ora li scortano fuori dall’esperienza. Ci si allontana ritornando nel consueto spazio urbano sotto il loro – ormai altrettanto – consueto e invadente sguardo giudicante.
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