
Danio Manfredini al Danae: “Al Presente”
Danio Manfredini è autore e interprete fra i maggiori del teatro italiano contemporaneo. Nel 1999 vinse come attore il premio Ubu con lo spettacolo Al Presente ed ora, a vent’anni di distanza, ha deciso di riproporre questa celebre performance in occasione del Danae Festival al Teatro Out Off di Milano. Al presente è uno spettacolo fortemente composito, inafferrabile ed enigmatico e pertanto risulta indispensabile partire dal suo processo di creazione per cercare di coglierne la complessità.
Il lavoro di Manfredini fonde insieme materiali che hanno due provenienze diverse: da una parte c’è la storia personale dell’attore poiché Manfredini stesso racconta, sempre per frammenti, alcuni momenti della propria vita, con particolare insistenza sull’infanzia e sulla vecchiaia; dall’altra c’è la dimensione dei manicomi, anch’essa autobiografica, ma in modo diverso. Manfredini è stato per molti anni in contatto con quella realtà, ci ha lavorato e l’ha vissuta. Ha potuto osservare da vicino come i disagi psichici incidono profondamente sul corpo delle persone che ne sono affette, plasmandone la gestualità e la parola. Questa esperienza ha fornito all’attore un contributo fondamentale per lo spettacolo rendendolo capace di riprodurre con sconcertante accuratezza i disturbi che presenta un corpo la cui mente è alienata. Balbettii, tic nervosi, improvvisi scatti di rabbia o di disperazione deformano il corpo dell’attore, lo imbruttiscono e lo umiliano. Numerosi i personaggi, ognuno con la sua patologia più o meno evidente. Tutti veri ed autentici, al punto che un’interazione empatica da parte di chi guarda non può che provocare disagio.
Durante lo spettacolo sulla scena si presenta un’inestricabile caoticità. Agli spettatori arrivano stimoli sensoriali di diversissima natura: voci fuoricampo, danze ossessive e disturbanti, proiezioni di diapositive e disegni a matita che si imprimono sugli oggetti e sul corpo dell’attore, discorsi sconnessi, monologhi deliranti, canzoni di Vasco Rossi, registrazioni di conversazioni vere e private. E l’uomo in bianco, con gli occhi dipinti di rosso, il folle che sembra sforzarsi di tenere insieme tutto. Il suo corpo è veicolo di questo tumulto incoerente e folle che si manifesta attraverso di lui facendone schermo vivente per disegni e diapositive oppure voce per le canzoni. Ma chi è, o meglio, che cos’è quest’uomo?
Volendo dare una lettura razionale e lineare della performance potremmo dire che si tratta di un uomo rinchiuso in una stanza di manicomio (l’azione si svolge in un luogo bianco, asettico, che richiama un ambiente ospedaliero) e che il pubblico assiste mentre è vittima dei suoi deliri. Ora, questa situazione voyeuristica è profondamente disagiante per chi guarda. Si ha l’impressione di violare uno spazio privato, anzi il più privato possibile: la mente umana. Si osserva lucidamente un corpo vilipeso e degradato da un cervello fuori controllo: il matto si rende ridicolo, si umilia, mette a nudo la sua anima, la offre alla vista e allo scherno dei “sani”, che lo guardano con distacco e una punta di divertimento. Perché qualcuno in sala ride davvero: non entrando in empatia con il disagio dell’uomo disturbato e non cogliendone la fragilità qualche spettatore non capisce e ride con riso cattivo compiacendosi della propria presunta normalità. Guarda i suoi modi goffi, il suo incedere scomposto, sente le sue parole sbiascicate e si sente piacevolmente estraneo rispetto a quella diversità. Ma si può ridere di tutto ciò? Forse, ma è un riso falso, di chi vuole fingere distacco per prendere le distanze da una fragilità umana che in fondo sente anche propria.
Nella condizione del folle rappresentata da Manfredini però non c’è nulla da ridere. Ci sono certamente dei momenti comici, ma il comico è solo una componente del grottesco e l’altra componente, non meno importante, è il tragico. C’è un abissale dolore di vivere nel soggetto folle di Al presente. Una fantasia di morte infatti aleggia durante tutto lo spettacolo. E’ uno spettro, una presenza sottile, che muove dalla malinconia e cresce fino a trasformarsi in disperazione. L’uomo, tormentato dai ricordi e dalla malattia mentale, allude di continuo alla propria morte e la desidera al punto da metterla in scena, simulando di finire folgorato su una sedia elettrica. Il momento è straziante: il corpo si contorce, trema, si agita come fosse percorso da migliaia di volt; eppure non muore, ed il dramma sta tutto qui. Ad accompagnare la scena un assolo di chitarra da una canzone di Vasco Rossi.
In ben due occasioni il folle ascolta e canticchia brani di Blasco, cercando di seguire l’andamento delle parole. Biascica, si emoziona, urla in modo sconnesso insieme alla voce di Vasco, che, diciamocelo, non è molto più limpida della sua. La scelta di Vasco come colonna sonora della follia è forse dovuta al fatto che nelle sue canzoni è presente tutta una serie di elementi che ritroviamo nello spettacolo: una diffusa malinconia certamente, ma soprattutto un’ energia grezza e viscerale che si scatena prima di tutto a livello corporeo. Vasco canta di pancia e di cuore i suoi dolori, senza curarsi troppo della forma, ed altrettanto fa il folle, che in maniera spontanea si ritrova e si identifica in quella modalità espressiva. La voce roca e affaticata però non riesce a star dietro alla musica. La fatica del vivere prevale ed infine la morte arriva. L’uomo non può far altro che accoglierla con gioia, perché viene a liberare il suo corpo dagli affanni indicibili di una mente tormentata dalla malattia e dai ricordi.
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