
Annegare nelle onde del tempo – La jetée di Chris Marker
Sono passati 60 anni da quando La jetée del regista francese Chris Marker, uno dei viaggi più affascinanti della settima arte, ha sconvolto le convenzioni del cinema, della narrazione e del genere fantascientifico. Tra i primi ad affrontare il tema del viaggio nel tempo, questo mediometraggio della durata di 28 minuti riesce ancora oggi a comunicare forti messaggi attraverso l’utilizzo sofisticato del medium cinema, proponendo in maniera sperimentale una storia oscura in cui l’essere umano si trova bloccato come un topo in gabbia.

Il film si presenta già dai primi secondi in una maniera mai vista: immagini statiche scorrono in sequenza sotto la guida di una voce narrante — è l’avvenimento del photoroman, ovvero fotoromanzo, secondo l’indicazione dei titoli di testa. La definizione ricorda, non a caso, le famose riviste che raccontavano trame di film o storie originali attraverso i loro fotogrammi. In questa dimostrazione, Marker stabilisce le fondamenta di una nuova tecnica di narrazione, che demolisce i canoni tradizionali del cinema come kínesis (movimento) e rimarca invece la sua appartenenza al movimento della Nouvelle Vague, in particolare al cosiddetto “gruppo della Rive Gauche“, affiancato da nomi come Agnès Varda e Alain Resnais.
«Ceci est l’histoire d’un homme marqué par une image d’enfance», annuncia la voce narrante. Sono infatti tre le immagini che colpiscono il protagonista da bambino e che per questa ragione si ripresenteranno in vari punti della pellicola: il molo, la donna e l’omicidio di un uomo. Proprio l’immagine fissa e ricorrente sarà il leitmotif del film, sia per il protagonista (stregato dal viso della donna e dall’omicidio) sia per lo spettatore (costretto a ripercorrere la storia non attraverso sequenze in movimento, ma attraverso singoli fotogrammi), come se entrambi si trovassero sul grande molo di Orly, a guardare gli aerei che partono, qualche anno prima dell’inizio della Terza guerra mondiale.

In seguito, con l’avvento della guerra, l’esercito tedesco rade al suolo Parigi con le armi nucleari, costringendo i francesi sopravvissuti a vivere in cunicoli sotterranei — un macabro scenario che ricorda non solo le catacombe dei martiri cristiani in epoche di persecuzione, ma rimanda anche alla profonda vergogna nei confronti del fu regime di Vichy, durante la Seconda guerra mondiale. Per il popolo francese il trauma delle catastrofi della guerra e della minaccia nucleare, culminata nella devastazione di Hiroshima e Nagasaki, è ancora fresco.
I tedeschi (il cui continuo sussurrare e vociferare costituisce un terzo della componente sonora del film, con la voce narrante e la colonna sonora) assumono qui il ruolo dei torturatori e incarnano il terrore post-apocalittico che pervade questo film, sottolineando non solo il contrasto tra due popoli in guerra, ma soprattutto tra due classi sociali, conquistatori e conquistati.
I loro esperimenti, che costringono gli “inferiori” allo shock psicologico di un viaggio nel tempo attraverso l’iniezione di droghe, portano alla morte o alla follia: gli sguardi e i volti spiritati delle cavie umane vengono enfatizzati da una luce di matrice quasi espressionista e lasciano intendere l’inevitabile condanna della razza umana.

Per gli esperimenti vengono scelte persone dotate di una forte capacità immaginativa, in grado quindi di conservare visioni forti nella propria mente; per questa ragione, il nostro protagonista viene scelto dopo aver combattuto nella guerra e, tra tutte le cavie, è l’unico che riesce a tornare nel passato, proprio grazie a quel viso di donna che gli era rimasto così impresso da bambino.
Il passato che viene mostrato attraverso i ricordi-immagine dell’uomo è un balsamo visivo, sia per egli stesso che per lo spettatore, il quale è stato bombardato fino a ora con immagini di distruzione e tortura. Una volta ritrovata la donna, il mondo che viene mostrato è contraddistinto da momenti di pace e, nelle parole del narratore, «cose vere»: una camera da letto, dei bambini, dei piccioni, dei gatti, addirittura delle tombe — le uniche cose “vere” che contano, momenti di vita quotidiana che in tempi di guerra sembrano così lontani e irraggiungibili.

È in questo limbo di pace che il protagonista si innamora della donna, ricambiato, in una realtà pura e intoccata dall’apocalisse della sua linea temporale, dove si può concedere delle visite al parco o al museo. In quest’atmosfera, troviamo l’unica vera sequenza in movimento del film: un sorriso che lei gli rivolge, a letto, in un momento di vicinanza e intimità. È l’unico momento in cui il cinema ritorna alla definizione di kínesis, l’unico momento fuori dal tempo che, paradossalmente, riporta lo spettatore alla realtà e alla narrazione cinematografica tradizionalmente conosciuta, con i suoi stilemi e le sue convenzioni.

Dopo il successo del viaggio nel passato, gli aguzzini decidono di mandare il protagonista nel futuro, dove ha l’occasione di incontrare una nuova popolazione, simbolo di un barlume di speranza dopo che ogni possibilità di vita sulla Terra sta per essere annientata dalla minaccia nucleare. Gli uomini del futuro gli forniscono una fonte d’energia in grado di risollevare completamente l’umanità e, ritornato alla propria dimensione temporale, aspetta solo il momento della sua esecuzione.
Proprio nel momento in cui il nostro uomo sta già accettando il proprio destino inesorabile (un memento mori evidente già dai primi fotogrammi della pellicola), gli esseri umani del futuro, anch’essi in grado di viaggiare nel tempo, gli offrono di unirsi alla loro società, ma lui sceglie di tornare nel passato dalla donna di cui si è innamorato — se prenda questa decisione allo scopo di rimanere per sempre con lei o per un’inconscia paura del futuro, ai posteri l’ardua sentenza.

L’uomo ritorna quindi [spoiler!] sul molo, la ritrova e cerca di raggiungerla, in una sequenza piena di tensione dove il ritmo di progressione dei fotogrammi si velocizza: è proprio in quel momento che il limbo di pace viene distrutto da uno dei galoppini al servizio dei torturatori, la cui oscura presenza annuncia che «non si scappa dal tempo» (battuta che ci riporta al già citato Resnais e ad Alfred Hitchcock, al quale è evidente l’omaggio). Il tutto culmina in un dinamico frame finale con l’uomo a terra, mentre la voce narrante in tono lugubre annuncia che quello a venire ucciso all’inizio è proprio il nostro protagonista, che viene visto da lui stesso bambino.

Ecco che quindi il trope fantascientifico del loop temporale, nel quale i personaggi della storia sono costretti a ripetere esperienze e azioni all’infinito (apparso ormai in svariate opere, da Doctor Who a Steins;Gate, passando per il classico Ricomincio da capo (Groundhog Day, 1993) di Harold Ramis), si realizza su due dimensioni: quella filmica, a livello di trama, come conseguenza ultima della ribellione alle leggi del tempo, e quella metafilmica, nella quale riesce a scavalcare l’intralcio della macchina da presa e a trasferirsi alla stessa modalità di narrazione — non a caso, gli ultimi momenti del film si collegano perfettamente al suo inizio.
Lo spettatore, in questo modo, si ritroverà coinvolto in un loop temporale a sua volta, in controllo del ciclo infinito in cui si trova il protagonista, completamente travolto dall’ineluttabilità dell’esistenza umana che, come in un mulinello d’acqua, è destinato a portarlo sempre più a fondo.
In copertina: collage di Martina Santurri
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