
Le cose che hanno funzionato, e quelle che invece no, nel live action di Cowboy Bebop
Cowboy Bebop (1998-99) è considerato, a ragione, uno dei migliori anime di sempre. Prima o poi, l’onda della nostalgia che sembra caratterizzare i nostri tempi si sarebbe dovuta abbattere anche su questo scoglio: è successo con la serie live action prodotta da Netflix e sviluppata da Christopher Yost, già noto per i suoi lavori nell’Universo cinematografico Marvel.
L’opera originale del regista Shin’ichirō Watanabe – creata con il contributo della sceneggiatrice Keiko Nobumoto, della compositrice Yōko Kanno, con il character design di Toshihiro Kawamoto e il mecha design di Kimitoshi Yamane – rimane ancora oggi una pietra miliare dell’animazione nipponica: sapiente fusione, tra le altre cose, di fantascienza, western e noir, al punto da autoproclamarsi esso stesso un genere (“The work, which becomes a new genre itself, will be called… COWBOY BEBOP”), visione esistenziale e nichilista di un futuro post-apocalittico in cui i personaggi – un gruppo di cacciatori di taglie a bordo di un’astronave – si trascinano dietro il peso del passato (“You’re gonna carry that weight”), il tutto esaltato dalla vibrante colonna sonora jazz e blues, parte integrante della filosofia della serie animata.
La serie di Netflix ha avuto quindi “l’ingrato” compito di trasporre in live action un anime di culto. È un’operazione riuscita? Non proprio, ma non è nemmeno così terribile.

Sia chiaro: nessuno si aspettava, né desiderava, che il live action seguisse l’anime pedissequamente, inquadratura per inquadratura, alla ricerca di una presunta fedeltà che di certo non si trova in una ripetizione passiva. Il principale rischio di un live action è quello di ogni reboot. Si rivolge in particolare ai fan dell’opera originale premendo sul fattore nostalgia, sperando intanto – soprattutto se sono passati anni dall’uscita del prodotto originale – di attirare nuovi spettatori, magari sfruttando un’estetica o una forma di narrazione più affine alle tendenze attuali. Il rischio dell’insuccesso si gioca quindi tra due modalità estreme, attenersi troppo all’originale finendo per realizzare una pallida copia, o spingersi lontano e rischiare di snaturare l’opera. Superare questo problema vuol dire realizzare l’arduo compito di risultare contemporaneamente familiare e originale. La serie Netflix di Cowboy Bebop cerca infatti di percorrere la linea di confine tra i due percorsi: si serve dei personaggi e delle storie dell’anime, al punto da riprodurre sequenze iconiche, mentre tenta di introdurre nuovo materiale.
L’attenzione all’iconografia di Cowboy Bebop inizia dai titoli di testa, che ricalcano lo stile e la grafica dell’opening originale sulle note della celebre Tank!. L’intera colonna sonora è all’altezza del suo predecessore, dal momento che è la stessa Kanno a comporre la musica con nuovi arrangiamenti. Gli episodi, dall’estetica abbastanza coerente e accattivante, mantengono il nome originale di “sessions”. Ritroviamo, a bordo del Bebop, i due cacciatori di taglie Spike Spiegel (John Cho) e Jet Black (Mustafa Shakir), ai quali si unirà Faye Valentine (Daniella Pineda) nel corso della storia.
Qui iniziano i problemi. La serie, come i suoi personaggi, non può sfuggire al confronto col passato.

Innanzitutto, l’animazione ha un proprio linguaggio visivo e, in una certa misura, possiede la capacità di raccontare una storia senza limiti. Nel passare dall’animazione al live action si corre il rischio di ottenere uno spettacolo surreale e posticcio che somiglia più che altro a un cosplay. Nel caso specifico del Cowboy Bebop di Netflix, il personaggio meno riuscito è quello di Vicious (Alex Hassell), ex partner di Spike e antagonista della serie. Non è solo una questione di costumi e parrucche: la più grande pecca è proprio nella scrittura del personaggio. L’intuizione di dargli più spazio rispetto all’anime, dove aveva solo apparizioni fugaci, fallisce nel momento in cui Vicious perde la sua aura di mistero e malvagità per diventare un gangster petulante e macchiettistico. Qualcosa di simile, se non di peggio, succede anche al personaggio di Julia (Elena Satine), interesse amoroso di Spike e Vicious.
La nuova serie cerca inoltre di trasformare la natura episodica dell’anime in una narrazione maggiormente serializzata, così da adattarsi al modello di binge-watching di Netflix, concentrandosi sull’organizzazione criminale Red Dragon e sul passato di Spike. In dieci episodi, il live action condensa il possibile, collegando personaggi ed eventi. Avrebbe potuto essere una scelta interessante, se non fosse che “le digressioni” dell’anime erano in realtà fondamentali per la sua filosofia e la condensazione sposta quasi completamente il fulcro della narrazione verso una storia di vendetta noir. Il problema più grande è che il Cowboy Bebop di Netflix fraintende il tono e gli intenti dell’anime originale. L’assenza più sentita è quella del silenzio, del non detto.
Il memorabile finale dell’anime non si prestava di certo a una serie pensata per avere più di una stagione, ma il (terribile) cliffhanger dell’ultimo episodio non avrà una prosecuzione: Netflix ha preso la decisione di cancellare la serie live action di Cowboy Bebop dopo meno di un mese dal suo arrivo sulla piattaforma. Chissà se e come questa cancellazione influirà sul destino dei futuri progetti di adattamento live action.

Bisogna ammettere che, nonostante il tono scanzonato decisamente fuori luogo, la serie live action di Cowboy Bebop finisce comunque per essere godibile. Purtroppo, lo è soprattutto se non conosci l’opera originale: se non lo avete già fatto, recuperate l’anime di Cowboy Bebop, che al momento è nuovamente disponibile su Netflix.
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