
Perché dare fiducia a “Resident Evil – Welcome to Raccoon City”
Se siete mai stati a una fiera del fumetto importante – ad esempio il Cartoomics di Milano o il Lucca Comics – molto probabilmente vi sarà capitato di imbattervi in una perfomance della Umbrella Italian Division. Si tratta di cosplayer professionisti che riproducono, con l’ausilio di diversi prop, trucchi e addirittura veicoli e elicotteri all’occorrenza, momenti chiave della più celebre (ma non unica) saga horror videoludica Capcom. Questo perché Resident Evil, al pari di altre saghe, si presta anch’essa, come ci spiega Nicolò Villani, a essere «qualcosa che si vuole impersonare, indossandone i costumi e l’attrezzatura, in un infinito e riuscito gioco di ruolo». Proprio in questo la prima storica e recentemente conclusa serie di film su Resident Evil falliva miseramente: incarnare quelle atmosfere che passavano prima di tutto dalla ricostruzione meticolosa di ambienti e personaggi tanto cari ai videogiocatori. Invece il cyberpunk del 2000 – uno su tutti Matrix – ha contaminato ineluttabilmente buona parte dell’estetica e narrativa fantascientifica degli ultimi vent’anni. Ne uscì così una serie cinematografica dal dubbio gusto futurista e stucchevolmente action che, al netto di qualche sprazzo di fedeltà ai giochi, ben poco aveva delle atmosfere del materiale originale. Se si escludono poi i tre film canonici in CGI e l’ultima miniserie Netflix Infinite Darkness – tutti prodotti discreti ma non eccezionali – Resident Evil rientra a pieno titolo in quei franchise munti dalla Hollywood più becera senza un minimo di anima. Almeno fino ad ora.

Resident Evil – Welcome to Raccoon City è un film piccolo e discreto, ma non qualitativamente, bensì a livello di promozione. Certo è lecito credere che tra l’ultimo Ghostbusters e Spider-Man: No Way Home la Sony (che ha prodotto anche la prima serie cinematografica) sia impegnata su ben altri fronti, tuttavia non dispiace la discrezione con la quale questo ultimo Resident Evil cinematografico si sia presentato sulla scena. Fin dal primo trailer risultano evidenti due aspetti: l’artigianalità degli ambienti, dei costumi e delle scene e la dichiarata ispirazione (quando non la volontà di ricalcarli) ai videogiochi originali, in particolare i primi due. Il film non tradisce queste legittime aspettative, anzi le conferma solidamente fin dal primo atto.
Parliamo di un film che si muove su due livelli di senso apparentemente disgiunti ma chiaramente complementari: il primo, più superficiale e alla portata di tutti, è l’essere un horror nella media (una media alta ma comunque non altissima) che è in grado di regalare qualche momento di sincero spavento e disgusto; l’altro è quello recepibile dai gamers e che passa da dettagli che fanno la differenza tra vecchia e nuova saga, ovvero l’essere un “cinegame”. Sono dettagli che vanno dal font del titolo ai costumi dei protagonisti che ostentano il simbolo “S.T.A.R.S.” con le tre stellette, fino a vere e proprie scelte di regia a camera fissa, tutti elementi che hanno fatto la fortuna dei videogiochi originali.

Vi sono dettagli poi che non sono dettagli, ma precise scelte stilistiche che ci ricordano cosa veramente è Resident Evil. Dialoghi poco profondi e personaggi di dubbio spessore, ambienti ricostruiti con molta CGI e una sceneggiatura volutamente scarna e povera di passaggi esplicativi. Brutto film? No, semplicemente un B-Movie che è esattamente ciò che era il primissimo Resident Evil per PS1. Un omaggio alla grande tradizione dei B-Movie americani girato per essere a sua volta un B-Movie a tutti gli effetti. Se non ci credete, riguardatevi il filmato iniziale del primo Resident Evil e rifatevi gli occhi con un Chris che ostenta la disperazione dell’abbandono con un pugno chiuso in un’espressione spettacolarmente ridicola. Oppure emozionatevi ancora nel sentire Barry che afferma solennemente «stavi per diventare un Jill-Sandwich». Come non amare poi la già citata artigianalità delle scene più splatter, come la comparsa dei Cerberus o la morte di Joseph? Se speravate di provare quel senso di adorabile disgusto da B-Movie sappiate che in questo film sarete generosamente accontentati. Resident Evil – Welcome to Raccoon City forse sarà anche poco più di un fan-movie come si sono lamentati alcuni, ma proprio in questo risiede la sua grandezza. È un atto d’amore da parte di chi, come “noi” (noi gamers), ha imparato ad amare una storia con un joypad in mano.

Certo la patina da B-Movie non basta a passare sopra a tutti i difetti o anche a vere e proprie scelte discutibili: se da un lato infatti i personaggi femminili risultano essere quelli meglio trasposti e approfonditi (Kaya Scodelario/Claire Redfield e Hannah John-Kamen/Jill Valentine sono i fiori all’occhiello del film) i personaggi maschili risultano essere sacrificati sopratutto a livello di scrittura. Il Leon S. Kennedy di Avan Jogia ad esempio si sforza per evitare di essere contagiato ma non riesce a sfuggire a un virus ben più letale che lo trasforma per tutto il film in un’insopportabile spalla comica.
Abbastanza deludenti poi le premesse di questo nuovo Wesker interpretato da un pur prestante Tom Hopper, anche se sarebbe saggio sospendere ogni giudizio definitivo in vista di un possibile sequel. Non malaccio invece il William Birkin di Neal McDonough (qui tra l’altro al suo secondo film su licenza Capcom) e il capo Irons di Donal Logue, sebbene nel secondo il punto di forza poggi tutto sul carisma innegabile dell’attore. Il personaggio più importante però è lei, Raccoon City, qui ricostruita per essere un terrificante parco a tema dove qualunque gamer può riconoscere ogni angolo mentre tutti gli altri possono legittimamente spaventarsi. Non a caso, il sottotitolo del film è un invito a entrare e a perdersi (o orientarsi) in questa città degli orrori immersa in un 1998 ucronico, come del resto richiede il canone della serie videoludica, e riconoscibile in ogni brano musicale appositamente scelto per l’occasione (davvero, la colonna sonora merita).

Che i film basati sui videogiochi facciano pena è un luogo comune basato su fatti difficilmente discutibili. Che però questi fatti non siano destinati a cambiare è un’asserzione pienamente discutibile. Qualcosa sta fisiologicamente cambiando, e sottolineo fisiologicamente perché i videogiocatori degli anni ‘80 e ‘90 sono cresciuti e ora sono dietro la macchina da presa e non solo. Hanno sofferto anche loro le mancate occasioni di Hollywood e ora vogliono fare la differenza. Per questo è importante dare fiducia a prodotti come Welcome to Raccoon City, perché sia pure in maniera timida e incerta sono comunque il segno che qualcosa sta cambiando, che c’è un’inversione di tendenza nel rapporto tra cinema e videogiochi e che forse si stia andando per il meglio. Forse anche con Welcome to Raccoon City siamo ancora lontani da una piena fedeltà al medium originale ma senza dubbio la strada da percorrere è quella e se non ci credete guardate il film: almeno si tratta della strada per arrivare a Raccoon City, quella vera.
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