
Ghostbusters: Afterlife – Gli Acchiappafantasmi sono tornati!
«New York negli anni ’80 era come The Walking Dead»
Paul Rudd in Ghostbusters: Afterlife
La scommessa era azzardata, va detto subito: rilanciare a pochi anni dal disastroso tentativo di reboot il franchise dei Ghostbusters – uno dei più amati in assoluto dal pubblico di almeno tre generazioni – con un nuovo capitolo che andasse a ricollegarsi ai primi due ampliandone e completandone il racconto poteva essere per Sony un autogol estremo. Certo, i tempi sono quelli giusti: gli anni ’80 restano ancora per l’audiovisivo contemporaneo il decennio più felicemente fertile cui attingere, i fan dell’epoca nel frattempo sono diventati genitori di figli pronti a giocare con nuovi gadget e i quasi tutti i protagonisti di quell’incredibile e inaspettato successo sono ancora tra noi. Così Sony, attraverso l’occhio attento di Jason Reitman (figlio di Ivan, autore dei primi due capitoli), ha fatto uscire Ghostbusters: Afterlife che, come vedremo in questa recensione, diventa un vero e proprio punto di contatto tra le generazioni di fan che gli Acchiappafantasmi hanno saputo incontrare.

Scrivere la recensione di Ghostbusters: Afterlife richiede alcune premesse. Innanzitutto, io sono un fan di “seconda generazione”, che ha incontrato gli Acchiappafantasmi durante l’infanzia tramite la televisione, con i film in replica e le serie animate, e che negli anni non ha fatto che rivedere quelle due pellicole tanto da imparare a memoria praticamente ogni passaggio e battuta; questa immersione ricorrente nel mondo dei Ghostbusters, fatta anche di giocattoli, videogame e altri prodotti comune a molti miei coetanei, ha fatto sì che trovassi insopportabile il reboot del 2016 e che mi accostassi con un misto di timore e speranza a questo nuovo capitolo: non più una ripartenza, ma un seguito, non più affidato ad “estranei”, ma nuovamente in famiglia. Eppure, un po’ per la natura di Sony, un po’ per l’estrema affezione al marchio, la paura restava.

Il risultato è che si arriva in sala a vedere Ghostbusters: Afterlife (in Italia, non a torto, rititolato Ghostbusters: Legacy) senza aspettative, totalmente indecisi se sperare nel miracolo e rischiare di essere delusi o se arrivare già rassegnati schivando tutto l’hype messo in campo dalla promozione. Eppure, fin dalle prime immagini, è chiaro che il film è – letteralmente – figlio di quei due capitoli precedenti, in grado di spingere subito l’acceleratore su quegli aspetti che negli anni ’80 (decennio in cui l’horror era prima di tutto il figlio adolescente del camp) restavano relegati al sottotesto, dando voce al lato crudele del paranormale fino a quel momento solo postulato a priori. Il tutto attraverso un’attenta e misurata (ri)costruzione del mondo narrativo, che passa in primis per lo spettatore.

In tutta la prima ora del film infatti Reitman imbastisce le pedine del suo racconto: personaggi, contesto, luoghi e immaginari vengono orchestrati in un lungo segmento iniziale creato su misura per i fan del franchise, rappresentati nelle diverse generazioni dai protagonisti della vicenda – su tutti Paul Rudd, vero simulacro dell’appassionato medio di “prima generazione” – facendoli giocare con gli oggetti che hanno plasmato l’immaginario dei Ghostbusters. L’insistenza quasi morbosa dello sguardo filmico – fatto di immagini e suoni – sugli zaini protonici, sulle trappole e sulla carrozzeria della ECTO-1 ricorda allo spettatore che gli Acchiappafantasmi sono prima di tutto qualcosa che si vuole impersonare, indossandone i costumi e l’attrezzatura, in un infinito e riuscito gioco di ruolo.

Questa dimensione ludica viene condita con la consapevolezza narrativa che il cinema high concept contemporaneo ha saputo sviluppare: spunti narrativi semplicemente pretestuali del primo capitolo vengono infatti qui trasformati nel collante di un macro-racconto che riesce a mettere ordine nei rapporti tra i personaggi, andando a giustificare gap temporali e sociali. Nulla è lasciato al caso nella sceneggiatura impeccabile di Ghostbusters: Afterlife che, in linea con i film precedenti, coniuga perfettamente autoreferenzialità, citazioni pop, una personalissima visione del paranormale e un’idea di scienza tra il concreto e il giocoso che sfocia nella pura avventura.

Reitman ha saputo costruire un prodotto consapevole di tutto il portato discorsivo che Ghostbusters e Ghostbusters II (troppo spesso sottovalutato) hanno imbastito: se è quasi unicamente il primo film a donare ad Afterlife il collante narrativo forte per la vicenda del film, è solo grazie al secondo che si riesce ad accettare la disillusione di fondo che accompagna gli Acchiappafantasmi; dopotutto, Ghostbusters II ci racconta di quanto sia stato facile per New York dimenticarsi di chi cinque anni prima ha salvato il mondo e di come il tempo sappia ridimensionare eventi di portata apocalittica. In questo nuovo film, che trasporta la narrazione da New York (in qualche modo il centro del mondo) ad uno sperduto paesino della provincia dell’Oklahoma, questa dinamica si estremizza diventando il motore primo della possibilità stessa del racconto.
Un prodotto riuscito, quindi, grazie alla consapevole dialettica tra nostalgia e linguaggio contemporaneo e grazie alla scelta di interpreti decisamente in grado di reggere il peso dell’eredità del marchio: se Paul Rudd diventa il collante col Saturday Night Live e Finn Wolfhard porta con sé il rapporto intertestuale con Stranger Things, la vera sorpresa è Mckenna Grace, bravissima e perfettamente calata nel ruolo, capace di farsi portatrice dello sguardo spettatoriale sul mondo e sugli oggetti del film. La forte componente attoriale è la chiave per la riuscita di dinamiche totalmente inedite (o meglio, rimosse) rispetto ai titoli precedenti, ovvero quelle familiari, che qui diventano meta-discorsi sulla problematicità di farsi carico di un lascito che il film stesso rappresenta per chi l’ha realizzato e per chi lo fruisce.

Ghostbusters: Afterlife è il ritorno alla vita del mondo degli Acchiappafantasmi e sancisce un Canone di racconti fin’ora molto fumoso e disperso. Inoltre, attraverso una consapevolezza tecnica decisamente matura, diventa la prova inconfutabile che il cinema, come medium espressivo, è e resta il luogo privilegiato in cui i fantasmi, quelli veri, possono esistere e manifestarsi per tornare a incontrare chi li ha amati.

Per finire, in coda alla recensione, un piccolo consiglio per la visione: prima di andare in sala a vedere Ghostbusters: Afterlife prendetevi il tempo di riguardare i due film precedenti – disponibili su Netflix fino al 30 novembre – per rinfrescarvi la memoria su immagini e dialoghi. Credetemi, mi ringrazierete!
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