
Ce l’ho Corto Film Festival 2021 – Pornografia d’autore
Il Ce l’ho Corto Film Festival, concluso di recente a Bologna, è tra le poche realtà festivaliere che affrontano seriamente il genere pornografico (nella sezione Ce L’ho Porno). Ha goduto anche quest’anno del supporto di realtà vivaci come l’Associazione Kinodromo, il corso CITEM di Unibo e il collettivo di ricerca Inside Porn, che studia la pornografia in una prospettiva etnosemiotica.
Per capire meglio cosa sia il porno basta rifarsi alla definizione di Ruwen Ogien, che lo identifica con la rappresentazione ostentata, esibita, ripetuta e intensificata dell’attività sessuale e dei suoi feticci erogeni, oltre che nella degradazione, l’oggettificazione, la disumanizzazione degli attanti. Riguardo alla funzione del porno, le ricercatrici di Inside Porn ci ricordano che “Il porno è sempre un discorso sulla sessualità, articolato in una relazione tra atto sessuale e immaginario sessuale” (Moscatelli, Giulianelli e Quagliotto 2017).

Insomma se da un lato la sessualità rimane la stessa (“seppur nelle sue infinite declinazioni”), l’immaginario sessuale è invece un fluido in perpetuo movimento sotto la pressa inesorabile della civiltà, la cui funzione primaria (come ricorda Freud ne Il disagio della civiltà) rimane quella di reprimere gli istinti. Lontano dalla piattezza del mainstream porn, il discorso pornografico si può allora articolare come istanza rivoluzionaria, contro modelli coercitivi di rapporti amorosi, di canoni di bellezza, di un’astringente “linearità” sessuale da cui tracciare infinite deviazioni. Così, Rubber di altSHIFT cattura in un empireo di gomma il rapporto di due giovani donne permeato dal sex appeal dell’organico, mentre Pornlife 2.0 di Lily Liu e dirty dreaz sfida i canoni abituali con lingue biforcute, piastre sottocutanee e scarificazioni.
Ma la palma dei cortometraggi più eversivi (o almeno i più sorprendenti) del Ce l’ho Corto Film Festival va a pari merito a Piss off X (USA, 19’57”) di Henry Baker (vincitore della sezione Ce l’ho Porno) e My Element Water (Germania, 20’07”) di Swen Brandy Carnivore. Il primo è un documentario sulle gesta di athleticpisspig, individuo che (nomen omen) è atletico e adora pisciare in luoghi pubblici come farebbe un maiale. Non solo: lo statuto di celebrità online gli ha permesso di organizzare una vera e propria tournée, tra piss-dates e piss-party in piazze, palestre e latrine che includono atti sessuali espliciti e rotolamenti in pozze d’urina. Di più: il nostro eroe monetizza il proprio hobby attraverso la vendita di feticci intrisi di urina (scarpe, biancheria, berretti…) a una platea di urofili entusiasti, con stagionamenti compresi tra le due settimane e i ventiquattro mesi. Uno sguardo penetrante in un feticismo tanto ignoto quanto innocuo, che ha garantito al serial pisser una fama da rockstar.

Il secondo, My Element Water, arruola una nuotatrice per una sessione di waterboarding. La tortura provoca un’immediata e incontrastabile sensazione di annegamento, con possibili danni a organi interni, cervello e traumi psicologici. Ma porta anche molto vicino all’orgasmo, come spiega la protagonista: “I had water in my eyes, my nose, my mouth, my ears… and I was wet.” Dopo aver raggiunto grazie al “torturatore” un violento orgasmo in pochi secondi, il corto prosegue con l’aggiunta di ulteriori strati e giochi di respirazione. E si torna da Freud, con la controversa formulazione di quella “pulsione di morte” (Todestrieb) che sembra operare al servizio del principio di piacere, portando l’individuo fuori da sé (ek-stasis), oltre l’organico, verso l’inerte beatitudine della materia inanimata.
Il genere pornografico si rivela insomma un medium promettente per articolare i discorsi inespressi, talvolta inesprimibili, della contemporaneità. A testimoniarlo, la sua crescente rilevanza nella poetica autoriale di opere significative dell’ultimo ventennio, come Irréversible (Gaspar Noé, 2002), La vita di Adele (Abdellatif Kechiche, 2013) e DAU. Natasha (Ilya Khrzhanovskiy, 2020).

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