
Vittorio De Seta, un’immanenza – Un estratto da Il meridionalista dell’immagine
Quello che segue è un estratto del libro Il meridionalista dell’immagine. Il cinema e la televisione di Vittorio De Seta, un saggio di Ludovico Cantisani recentemente pubblicato da Edigrafema con una postfazione di Goffredo Fofi e un ricco apparato di interviste a collaboratori ed “eredi” del regista.
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Lu tempu di li pisci spata, Isole di fuoco, Banditi a Orgosolo, la crisi delle ideologie riflessa “in negativo” in Un uomo a metà, il dibattito sull’educazione di cui è frutto lampante il Diario di un maestro, le esperienze metadocumentaristiche de La Sicilia rivisitata e oltre: il cinema di Vittorio De Seta è un cinema che racchiude in sé un sentimento del tempo, una capacità rara e fine di cogliere le più sottili variazioni nel mondo che lo circondava, mantenendosi al tempo stesso in un’ottica sovratemporale, nella coscienza della capacità che il mezzo filmico ha di “eternare” ciò che inquadra. Scrutare il cinema di De Seta è un modo per fare visceralmente i conti con la storia di Italia, per piegare il cinema, il linguaggio che più si presta da un lato alla manipolazione della realtà che filma dall’altro all’ipnosi dello spettatore che seduce, verso un’immanenza che non gli è propria.

Il meridionalista dell’immagine. Il cinema e la televisione di Vittorio De Seta – Ludovico Cantisani
“Per me la finalità è sempre la stessa: portare lo spettatore sul posto! In fondo, il documentario è più complesso della fiction, viaggia su binari assai meno prestabiliti. Nel documentario si possono impiegare più fattori compositivi: le immagini, le interviste, la voce over, le foto, i film di repertorio, la musica”, diceva De Seta a Goffredo Fofi e a Gianni Volpi. “Solo una ‘strutturazione poetica’, come dicevamo prima, che conti sul sentimento oltre che sul pensiero, fa sì che a distanza di tempo un documentario sopravviva, che abbia un senso”. È la strutturazione poetica – magnifica formula, non c’è che dire – ad essere il trait d’union tra due opere solo in apparenza opposte come Banditi a Orgosolo e Un uomo a metà, che accostate l’un l’altra nella stessa filmografia sembra mettere in pratica quell’idea di compresenza e commistione tra elemento razionale e irrazionale illustrata da De Seta in risposta ad Aristarco. Ma lo sguardo di De Seta era ancora più ancestrale, e vivissimo già dai primi corti degli anni cinquanta.
Maestro “involontario” o “schivo” del cinema italiano, non solo di quello documentario, il percorso tracciato da Vittorio De Seta dal 1954 de Lu tempu di li pisci spata all’Articolo 23 del 2008 è un percorso che coraggiosamente va a dibattersi con esiti alterni fra le pieghe dell’umano e dell’umano, laddove gran parte del cinema, incluso il cinema documentaristico, si concentrava sui personaggi, sulla figura fatale dell’eroe, del protagonista. E questo non vale solo per le vicende che si svolgono davanti alla macchina da presa. Contravvenendo ogni politica degli auteurs o degli autori, soprattutto in Diario di un maestro il fare-cinema stesso per De Seta si trasforma in un fatto collettivo, anch’esso comunitario, con il regista addirittura fuori dal (non) set in cui si gira ad aspettare che il direttore della fotografia, a cui si affida, termini di girare: così estremizzato, il fare-cinema diventa un atto collettivo pur restando personale, come il lavoro delle masse solo in apparenza anonime e indifferenziate viste lavorare in miniera in Surfarara, o affaticarsi sui campi in Parabola d’oro.

Acuendo questa tematica del decentramento, negli ultimi anni della sua vita Vittorio De Seta arrivò a teorizzare una possibile contrapposizione tra un cinema tolemaico e un cinema copernicano: nel cinema tolemaico, classico, tutto gira intorno alla macchina da presa, che è la protagonista e la principale responsabile della narrazione in funzione della quale si organizza la scena; il cinema copernicano invece lascia accadere qualcosa in maniera naturale e spontanea per poi girarla, imposta la ripresa in funzione della scena e non il contrario, senza mettere i protagonisti, non-attori, in una situazione artefatta, ricostruita.
Ci permettiamo un ultimo inciso demartiniano, forse un frammento di un discorso futuro. Già abbiamo ricordato come, nel suo sistema di pensiero, i riti assolvono all’essenziale funzione di restaurare la presenza nei momenti di crisi, in virtù delle loro proprietà intrinseche di ripetizione e quindi di virtuale garanzia e protezione dal divenire:
“Proprio perché dominato da quella forma di permanenza che è la ripetizione rigorosa di uno stesso ciclo di atti… il ritualismo racchiude in germe un momento di separazione protettivo dal mondo, di fuga ristoratrice dal divenire: nell’angoscia della storia che non si ripete (e che proprio perché non si ripete ci angoscia) ci si ritira nella munitissima rocca della ripetizione… Di qui nasce lo scrupolo caratteristico della esatta iterazione, la mania di esattezza, il dubbio dell’errore nella esecuzione: quell’attimo che facendo breccia nella barricata della ripetizione, rischia di farla crollare lungo tutto il suo fronte”
De Martino, La fine del mondo
Se oltre ai riti c’è un altro prodotto culturale umano che proprio nella sua capacità di esatta ripetizione trova una delle sue maggiori specificità e criticità, come indicava Benjamin, questo prodotto culturale è proprio il cinema. Il cinema non “è” rito, ma lo può implicare: sia nella sua fruizione che nello statuto che assume il suo contenuto. A maggior ragione allora, quando è utilizzato per ritrarre il reale senza distorsioni e senza mediazioni se non quelle rese indispensabili dalla tecnica e la natura del mezzo filmico, il cinema può risultare una suggestiva “arca di Noé”, quale è per certi versi la funzione del fare-cinema desetiano.

Ciò che è cruciale sottolineare è che però De Seta non è, non è stato, l’ultimo erede di una tradizione meridionalista italiana che affondava nell’Ottocento. Per quanto questa definizione oggi possa suonare obsoleta, e da più parti si è (auto)proposto il termine paesologia, il meridionalismo in qualche modo è ancora vivo, a livello di festival, di pubblicazioni cartacee e sui giornali, ma anche sui social e in generale su Internet, e soprattutto, nei territori di cui il meridionalismo tratta, nelle zone paesane e rurali del Sud Italia. Che questo movimento si ponga in una forte continuità con il meridionalismo di metà del Novecento di cui De Seta fu l’indiscusso protagonista cinematografico, per poi volgere la sua attenzione anche su altre questioni, mi sembra lo testimoni bene una poesia del poeta e “paesologo” Franco Arminio, una lettera in versi a Rocco Scotellaro:
“Caro Rocco,
io sono nato quando il tuo mondo
stava finendo.
Si è più soli nel mondo che è venuto,
ma per fortuna ogni tanto
c’è qualche giorno di bella luce.
Ora la tua Lucania è un altare
per i devoti della terra,
è la pietra che fiorisce nell’aria”
Arminio, Cedi la strada agli alberi
In fondo, la questione è sempre quella della nostalgia. Al tema lo studioso Vito Teti ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, il saggio Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente uscito a fine 2020 per Marietti. Nell’interpretazione che dà di questo sentimento, in parte rielaborata a seguito dello scoppiare della pandemia di Coronavirus, Teti vuole in parte rielaborare la visione corrente di un’emozione spesso liquidata come fissazione patologica che impedisce il progresso, e mostrare come la nostalgia, “capace di intercettare il pensiero apocalittico e quello utopico”, abbia anche una dimensione sovversiva a favore degli sconfitti e degli emarginati. Ma cinema e nostalgia corrono su bianri paralleli: a un Salvatore in fuga dalla medesima Sicilia rurale il Philippe Noiret di Nuovo Cinema Paradiso intimava: “non farti fottere dalla nostalgia”. Il cinema di De Seta ha ancora un valore proprio perché è arrivato un attimo prima che “le tradizioni” diventassero “il folklore”: e invece di piangere sulla scomparsa delle lucciole nei decenni successivi questo cinema continuò a investigare il reale con la stessa forza immanente, confrontandosi in maniera diretta con la civiltà industriale e le sue nevrosi.

Perché De Seta allora? Perché il suo cinema va ben al di là del valore di un documento, e anche della stessa forma del documentario. Un bell’aforisma di Truffaut voleva che ogni film contenesse in sé un’idea di cinema e un’idea del mondo: i film di Vittorio De Seta, e soprattutto i primi film, il che è più atipico, corrispondono appieno a quest’idea di manifesto costante, filmico e metafilmico, che nel delineare una nuova forma re-interpreta anche un mondo “vecchio”, ma nuovo quanto alla sua registrazione. I luoghi affrontati da De Seta non erano del tutto vergini cinematograficamente – si tramandano tuttora le esperienze documentaristiche di Ugo Saitta e di Fiorenza Serra, ad esempio, per non parlare di Luigi Di Gianni, tuttora oggetto di studi monografici – ma era più puro il suo sguardo, meno carico di preconcetti, più libero di scoprire e di scrutare. E quanto più passano gli anni e la sua produzione audiovisiva inizia a riavvolgersi su sé stessa, con operazioni puramente meta- come La Sicilia rivisitata, Vittorio De Seta vorrebbe ricostruire, con i pezzi originari, le impalcature e le antiche strutture di tutta una civiltà preziosa ed estinta, ma sa che è impossibile; e allora prende il calco di questa civiltà quando è ancora in vita, e lo ripete di decennio in decennio quando inizia la sua estinzione, operando confronti – e grazie alle capacità intrinseche del cinema di registrazione, riproduzione e ripetizione di questa civiltà De Seta restaura, per usare un termine demartiniano, la presenza.

Presenza – silenziosa, o meglio sottaciuta. Presenza, che è la serena assenza feroce di un’autorialità, che in realtà è una sottrazione del Sé registico. Presenza, che è testimonianza, ma che sa essere e sa di essere sunto – una giornata dei pescatori, che vale per la loro intera vita come corpus collettivo, nella ripetizione infinita di una quotidianità replicata dalla ripetizione potenzialmente infinita della proiezione. Presenza, che nei suoi risultati migliori – e, seppur nella forte eterogeneità che contraddistingue l’opera di De Seta, non sono pochi – sa farsi trasposizione – trasposizione esistenziale, che senza scomodare la filosofia, la storiografia o l’antropologia si nutre invece dei mezzi e dei codici che spettano propriamente al cinema.
Presenza, che è testimonianza, che è traslazione – questo è un sunto, seppur manchevole, comunque esatto del cinema desetiano. Una riflessione forse già troppe volte citata del compositore austriaco Gustav Mahler sancisce che “la tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere”. Un’altra frase, stranamente meno nota, del Pier Paolo Pasolini di Empirismo eretico confessa che “fare del cinema è scrivere su della carta che brucia”. Si accostino questi due aforismi e si avrà, come precipitato chimico, De Seta.

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