
Focus Zona K Milano | Intervista a Valentina Picariello
Zona K è un’associazione e uno spazio culturale fondato nel quartiere Isola di Milano nel 2009 da Valentina Kastlunger e Valentina Picariello. Difficile da definire in maniera univoca, Zona K è uno spazio di promozione e produzione culturale non convenzionale, che fonde un’attenzione e un impegno costante per il quartiere in cui è immerso con uno sguardo attento e propositivo al panorama teatrale e performativo delle avanguardie internazionali. In occasione dello spettacolo #nuovipoveri del collettivo indipendente Guinea Pigs, abbiamo scambiato due chiacchiere con Valentina Picariello per meglio conoscere questa realtà, i suoi progetti e la sua storia.
Che cos’è la “Zona K” e come mai proprio in questa zona di Milano?
Zona K nasce come spazio nel 2009, ma solo nel 2011 abbiamo creato l’associazione e iniziato l’attività culturale e teatrale. I primi due anni sono stati di avvio, gestionale ed economico. Perché in questa zona? É stato abbastanza casuale, a dir la verità. La storia della K è legata alla toponomastica: K deriva dai vecchi stradari della città, dove c’erano le ascisse e le ordinate, e il civico 11 corrispondeva alla lettera K.
Come definireste Zona K?
Il percorso è stato vario. Abbiamo iniziato volendo fare cultura in senso generale e teatro nello specifico, consapevoli del fatto che aprire l’ennesimo spazio teatrale non sarebbe stato facilissimo e i primi anni abbiamo ospitato compagnie che conoscevamo, per lo più milanesi e non particolarmente conosciute, impostando una stagione di prova e rodaggio per vedere come andava. È andata bene, ma con un sacco di punti di domanda sul senso di essere l’ennesimo spazio che proponeva teatro senza però avere delle risorse e anche un riconoscimento così istituzionale.


Perché non siete riconosciuti come teatro, giusto?
No, noi siamo un’associazione culturale. Riceviamo fondi attraverso i bandi, e dal comune come attività continuativa tutto l’anno nel settore dello spettacolo, ma sono finanziamenti diversi da quelli di un teatro. Il grosso problema di aprire l’ennesimo spazio teatrale, poi, è sempre stato il pubblico. Finché anche la compagnia ti aiuta va bene, ma invitando qualcuno da fuori all’inizio è stato difficilissimo.
Poi, nel 2014 abbiamo invitato i Rimini Protokoll, collettivo tedesco riconosciuto a livello internazionale, che non era mai stato a Milano e credo nemmeno in Italia, con un progetto grosso che si svolgeva in giro per la città. Il progetto si chiama Remote X ed è un format pensato per essere riadattato a seconda del luogo in cui viene fatto. Remote Milano è stato un azzardo, sia in termini economici che organizzativi, anche perché siamo una struttura con pochi membri, ma ci ha dato una visibilità enorme, ha avuto un successo non dico insperato, ma tutt’altro che scontato. A un certo punto è come se la città si fosse accorta di noi.
Da lì abbiamo cercato anche di avere un pensiero forte rispetto a quello che presentavamo. Non siamo in grado di sostenere una stagione e di essere aperti tutte le sere con spettacoli come un qualunque teatro, perché non è sostenibile per lo spazio, che anche in tempi pre-pandemici affittavamo come location per avere delle entrate in più. E non siamo un teatro, per cui copiare un modello senza esserlo non funzionava. Allora abbiamo iniziato a strutturare le stagioni diversamente, per anno solare, il che creava già un po’ di spaesamento nel pubblico, e poi ad avare un macrotema molto forte declinato in vari sottotemi, che noi chiamiamo focus: in base al tema, scegliamo gli spettacoli in maniera netta e precisa. L’anno della stagione dedicata all’Economy, per esempio, c’erano i focus su Money, Society, Ecology e Technology.

Diventate in un certo senso un catalizzatore di proposte culturali che si possano sposare con il tema che avete scelto.
Esatto. Tenendo presente che uno sguardo internazionale è sempre stato molto forte, a partire dai Rimini Protokoll. In quel momento a Milano non c’era ancora così tanto respiro internazionale, almeno d’avanguardia, com’è arrivato poi. Da lì abbiamo proseguito su quella linea con una particolare attenzione al presente, con spettacoli che analizzano, parlano, interpretano il tempo che stiamo vivendo, sempre declinato nei vari temi. Il tutto anche con un’attenzione al teatro partecipato, al cambiare un po’ la prospettiva e l’ottica di fruizione, e alle nuove tecnologie. Dall’esempio di Remote Milano, che era una passeggiata attraverso la città in cuffia, siamo andati avanti. Un altro spettacolo in cuffia è stato quello di Roger Bernat, un regista spagnolo-catalano, in cui il pubblico diventava lo spetta-attore, partecipava cioè attivamente alla creazione di una drammaturgia che in realtà esisteva già, ma si avverava nel momento in cui lo spettatore diventava soggetto attivo dello spettacolo. Questi sono rimasti un po’ i nostri capisaldi: l’attenzione al presente, il teatro partecipato, uno sguardo all’internazionale e l’uso di nuovi media.
E che pubblico avete conquistato negli anni?
Un pubblico vario. Avendo portato nomi importanti a livello internazionale, come gli Agrupación Señor Serrano, Roger Bernat, i Rimini Protokoll, attiri anche molto un pubblico di operatori, sicuramente i più attenti. Fino al 2019 poi organizzavamo ogni anno un festival di quartiere, che coinvolgeva anche tutte le altre realtà culturali e commerciali della zona, con molte attività per bambini in due giorni di festival diffuso. Questo sicuramente ha aumentato molto la conoscenza territoriale e il lavoro con le persone, anche considerando che noi teniamo corsi di teatro per bambini, ragazzi, anziani… insomma, abbiamo creato anche un pubblico di zona. I nostri numeri poi sono sempre piccoli avendo una sala di massimo 90 posti. L’altra cosa che abbiamo fatto in questi anni è stata stringere relazioni con teatri e grandi istituzioni: abbiamo collaborato con Triennale, col Teatro Franco Parenti, col Festival Danae, ma anche con realtà molto piccole e associazioni, cercando sempre di creare una rete.

Essere uno spazio non convenzionale dal punto di vista dell’identità prima della pandemia vi consentiva una libertà di azione e ideazione forse maggiore rispetto a un teatro normale. Dopo la pandemia, invece, il vostro modo di fare teatro fuori dal teatro, con la possibilità di fare rete e stare nella città è cambiato?
Questi due anni sono stati abbastanza complessi per la necessità di un ripensamento che non è ancora finito perché, a parte la pandemia, il mondo esterno comunque evolve e ti impone di cambiare. Per esempio, il teatro in cuffia in città adesso viene fatto in tante situazioni da diverse compagnie: non è più una novità o un modo diverso di fare teatro, così come il teatro partecipato e il teatro documentario. Ci sono tanti modi di farlo, e forse ormai anche più bisogno. Non abbiamo ancora una risposta se sia finito quel tempo e se ne apra un altro.
Alla luce di quello che hai detto, la forma più tradizionale di spettacolo, come è #nuovipoveri, come si inserisce nella vostra proposta culturale? E qual è il motivo per cui questo è uno spazio necessario per fare teatro? E perchè non si può rinunciare a fare teatro oggi?
Sono domande un po’… macro! Innanzitutto, i Guinea Pigs fanno un lavoro di tipo documentario che a noi interessa da sempre. È più tradizionale per certi aspetti, ma non siamo così radicali da non volere cose tradizionali. Anche perché nel nostro proporre cose un po’ diverse l’attenzione è sempre stata sul pubblico. Non ci rivolgiamo solo a operatori, anzi, il nostro obiettivo è sempre stato quello di cercare di fare cose che arrivassero ovunque. Poi, non è così scontato riuscirci, anzi, però il desiderio e la voglia è sempre stata quella di riuscire a coinvolgere anche chi fosse più distante da certe proposte e fargli scoprire delle modalità diverse di teatro e lavori. Con i Guinea Pigs c’è stato un lungo percorso, avevano iniziato a lavorare allo spettacolo proprio qua a Zona K: paradossalmente, la scenografia è rimasta imbalsamata qua per mesi. E rientrano anche in un discorso di dovere nei confronti dei più giovani, di chi non ha ancora raggiunto un successo tale da poter andare ovunque, in un periodo poi particolarmente difficile. Era giusto per noi e giusto per loro che presentassero questo spettacolo a Zona K.
Che cosa sia il teatro oggi non so dirti. Il bisogno c’è ed è veramente enorme, non così riconosciuto da tutti, probabilmente. La potenzialità è ormai un po’ relegata a pochi, ed è un grandissimo peccato che sia così, nel senso che quella forza di coinvolgere, di empatia, di vedere una cosa che ogni sera può essere diversa… ce n’è proprio bisogno. Questo è uno dei motivi per cui abbiamo appena lanciato un crowdfunding per un progetto, Generazione Glocale, che avevamo già fatto nel 2019. A suo tempo lo avevamo fatto grazie a un bando del ministero con il coinvolgimento di giovani delle seconde generazioni di immigrati. In questi anni lo abbiamo portato un po’ in giro e abbiamo deciso di rifarlo perché dà voce ai ragazzi, per davvero: è una specie di gioco in una sorta di campo da pallone, senza per forza essere attori, che tira fuori il loro in diverse modalità, audio – anche questo è in cuffia – e parole, azioni e giochi. Abbiamo lanciato il crowdfunding perché è un lavoro che vorremmo portare nelle scuole. É un modo per far vedere ai ragazzi, che siano studenti del liceo o di istituti professionali (che hanno ancora meno accesso al teatro) che ci sono forme diverse e che possono essere ancora più divertenti e coinvolgenti rispetto a quello che fanno solitamente e all’immaginario che possono avere del teatro, che in tanti contesti fatica ancora a morire… Noi continuiamo ad avere voglia di uscire e coinvolgere categorie diverse di persone nella creazione stessa, vera e propria di un lavoro.
A te e Valentina Kastlunger com’è venuta l’idea di fondare Zona K?
Ci conosciamo da sempre, e questo è forse uno dei motivi per cui riusciamo ancora a lavorare insieme. Ognuna ha avuto il suo percorso, ma c’è sempre stata la voglia di fare una cosa insieme. Lei ha fatto un percorso più teatrale, si è laureata in scienze politiche e poi si è diplomata in regia alla Paolo Grassi, facendo anche degli spettacoli con una compagnia. Io, invece, ho fatto storia, ho lavorato in università e poi in case editrici. Questa unione di professionalità diverse è anche un po’ la sintesi di quello che è Zona K: è teatro, ma che guarda al presente, si interroga su determinati temi, ha una forte anima di ricerca e di studio, politica. Per cui non ci interessa fermarci allo spettacolo, per anni infatti a ogni spettacolo affiancavamo sempre incontri con docenti universitari, intellettuali, studiosi, e soprattutto in questo i focus ci aiutavano molto. Se ti presento il focus Money, ti parlo di soldi, ti porto tre spettacoli meravigliosi che parlano di soldi in maniera diversa, ma ti presento anche il docente di economia della Bocconi o il giornalista di economia politica, con l’idea di andare sempre un po’ più a fondo nei temi scelti e unire mondi che spesso non si parlano.

Mentre parlavi mi è venuto in mente un TedTalk sentito di recente dove si parlava dei multipotentialite people, persone che a invece di rassegnarsi all’idea di non avere un’unica vocazione nella vita ne hanno fatto una forza, mettendo insieme cose distantissime. La relatrice illustrava i tre superpoteri dei multipotentialite people: la capacità di sintesi, di adattamento e la velocità di apprendimento. Ecco, ascoltandoti parlare mi è sembrato che Zona K sia un multipotentialite place!
Sei generosa, grazie! Non so se siamo quello, ma sicuramente c’è sempre stata la voglia di non fermarsi. Forse è un po’ anche un’inquietudine naturale, ma sempre con molta curiosità. Poi certe strade sono più classiche e le seguiamo anche noi, è anche difficile ripensarsi sempre. Devo dirti che la grande sfaccettatura che noti c’è stata anche permessa dal non essere un teatro convenzionato, perché abbiamo meno regole a cui sottostare. Fare delle produzioni tue, dei site specific o people specific, in cui lavori per mesi a cercare le persone giuste, i luoghi giusti, a inventarti dei percorsi particolari, sempre con la collaborazione di compagnie internazionali che magari quella cosa la stanno già facendo… è molto stimolante e lo può fare una struttura agile, un teatro normale non è detto riesca a farlo. Fino ad adesso ha funzionato molto bene così, ora vedremo dove stiamo andando.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista