
Il codice da un miliardo di dollari – Terravision 1 – 0 Google!
Senz’altro aprire per puro impeto nostalgico la pagina di Google Maps e provare addirittura un principio di commozione nel curiosare dall’alto il mio paesello di campagna è stata una delle emozioni più bizzarre di questo mese. È il primo di molti inimmaginabili effetti provocati da Il codice da un miliardo di dollari, nuova miniserie tedesca su tecnologia, media e startup diretta da Robert Thalheim e prodotta dal famigerato Netflix, che prova così a smarcarsi dal suo documentario grossolano The social dilemma (2020), sempre avente tematiche analoghe. Agli autori c’è da riconoscere, al di là della buona riuscita della serie, d’aver proprio azzeccato il dosaggio: quattro episodi da un’ora ben confezionati con cliffhanger finale sono il giusto compromesso per avvalorare una storia vera che non necessita troppi dilungamenti romantici. In aggiunta per i ficcanaso – nessuna vergogna, questa è una serie per curiosi – una feature story di mezz’ora in cui vengono intervistati i protagonisti effettivi della vicenda.

È stata l’euforia immediatamente successiva al crollo del muro di Berlino, con le sue sperate forze gravitazionali, a far incontrare l’artistoide Carsten Schlüter e il nerd Juri Müller; è così che per un visionario progetto comune si interseca il binomio da sempre vincente arte-scienza, con una nuova declinazione adorabilmente sgraziata: l’arte intanto è quella sperimentale e provocatoria, mentre la scienza è votata all’hackeraggio e ai pasticci informatici. L’esito di queste premesse è Terravision, un software che sfrutta le immagini satellitari per la creazione di una mappatura globale 3D: una sorta di Google Earth, forse? Insomma, in parole semplici, l’obbiettivo, dice Juri, è iniziare a volare attorno al mondo come Superman. Quindi dopo aver ripulito il curriculum da ribelli d’accademia e truffatori digitali, il collettivo di giovani che si raduna attorno ai due amici sognatori partecipa al bando per le nuove proposte tecnologiche della Deutsche Post. Con una buona percentuale di bluff, un finanziamento discreto e un computer performante, la neo-azienda ART+COM prende il volo ed inizia a farsi conoscere dal Giappone, passando per l’Europa, fino in America. E ah, l’America…
Nel bel mezzo di un festino hippie nel deserto californiano, Brian Anderson, un pezzo grosso della Silicon Graphics, riesce a carpire dal tanto geniale quanto ingenuo tech freak Juri l’algoritmo del fortunato programma. Caso vuole che Zio Brian dieci anni dopo venga assunto da Google e proprio per conto del colosso americano sviluppi il software utopico dei ragazzi della nuova Berlino, che ora, con l’ausilio di internet e la proliferazione dei computer ad uso domestico, decolla sul serio. In questo modo Terravision diventa prima Keyhole e poi Google Earth, integrato per certi versi a Google Maps, senza passare per scomode e dispendiose trattazioni sul brevetto che tutelerebbe l’invenzione prima. Cadono dalle nuvole, in quest’ordine, Carsten, Juri e pure Superman.
Da questo frustrante stallo scivoliamo dritti dritti al presente, precisamente nel 2016, quando la ART+COM – ormai senza finanziamenti e con un dissidio interno ancora da sedare – chiama a processo niente di meno che Google: l’obbiettivo è dimostrare che il codice brevettato negli anni Novanta da un gruppetto di ragazzi sgangherati, ormai uomini e donne spettatori inermi dell’ascesa del magico software, sia lo stesso sfruttato dall’applicazione con cui smanettiamo settimanalmente. E come è andata a finire? Tutto ben si riassume nell’ironia del cortocircuito: “Ma perché non ho mai sentito parlare di Terravision? Se lo cerco su Google non vedo nessun risultato.” Ecco lì l’inghippo, insinuato nel motore di ricerca che ormai usiamo in modo automatico, di certo senza domandarci la sua storia e quali e quanti strati di progetti propri e altrui, sono stati impilati e striminziti per dare luogo ad un mezzo tanto agile.
Ma il team di Terravision fa quello che gli riesce meglio: cambia prospettiva. Se la verità emersa in tribunale non basta, ecco una serie tv che dimostra per filo e per segno l’originalità del progetto. Forse ancora non è sufficiente per riprendersi legalmente la sua paternità, ma di certo è abbastanza per sensibilizzare lo spettatore sull’accaduto ed accalappiarsi un po’ di meritata pubblicità, creativa ed irriverente come sempre sono stati i nostri losers.

Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista