
Il Sospetto – Hitchcock, il latte e il ribaltamento divistico
Spenta la luce, preso il vassoio, il latte illumina ancora lo spazio, iniettando un senso di paura, timore, nella mente e nel cuore dello spettatore. Solo un regista come Alfred Hitchcock poteva prendere un oggetto così ordinario e renderlo contenitore di sospetti, paure, associazioni mortali.
Un ribaltamento di contenuti che si reduplica ancor più nella scelta del suo protagonista. Nel 1941 Cary Grant era considerato il re della commedia. I suoi personaggi così solari, ottimisti, dalla forte carica attrattiva, se da una parte avevano conquistato il cuore del pubblico, dall’altra consolidarono la tipologia di personaggio che lo spettatore associava a questo attore. Poi arriva Alfred Hitchcock e tutto cambia. Con Il Sospetto il regista rivoluziona, decostruendola e ribaltandola, l’immagine divistica di questo attore, per trasformare l’affabile Cary Grant in un presunto assassino.

Prendendo le mosse dal romanzo Before the Fact, scritto e pubblicato nel 1932 da Anthony Berkeley Cox sotto lo pseudonimo di Francis Iles, Il Sospetto rivela una trama alquanto semplice, resa ancor più prevedibile e anchilosata nel suo epilogo dalle scelte dei produttori, interessati non solo al mantenimento del canonico happy ending, quanto alla preservazione della star-image di Cary Grant. La particolarità del romanzo di partenza sta piuttosto nel suo incipit, il quale recita «Ci sono donne che generano degli assassini, donne che li amano, donne che li sposano. Lina Aysgarth ci mise otto anni per accorgersi di aver sposato un assassino». Andando contro le buone regole del thriller, Iles rivela sin da subito al lettore la vera natura omicida e seriale di un Johnnie Aysgarth, personaggio che all’ambiguità ha preferito la rivelazione di intenti assassini, per poter godere in santa pace della cospicua eredità che riceverebbe dalla morte della moglie.

Ciò che aveva tra le mani Hitchcock era pertanto materiale perfetto per compiere il suo atto di sabotaggio nei confronti del sistema claustrofobico e limitante hollywoodiano. La mente lavora, e quella che ne risulta è una sceneggiatura fermata sul nascere, che prevedeva di fatto l’avvelenamento con quel bicchiere di latte. Consapevole dell’atto omicida del marito, Lina accetta la sua sorte, in nome dell’amore che ha per lui. Prima di bere il latte, però, la donna avrebbe consegnato a Johnnie una lettera da recapitare a sua madre, in cui svela i suoi sospetti. Il film sarebbe dovuto finire con l’immagine di Johnnie che imbuca la lettera che l’avrebbe incriminato. Ma per quanto potente fosse l’aura di geniale alacrità che circondava la figura di Hithchcock, questa nulla poteva contro il dominio dei produttori, e così ecco sopraggiungere il finale consegnatoci negli anni, perfetto compromesso tra l’idea iniziale e originale di Hitchcock e quella proposta addirittura dal presidente della RKO, George J. Schaefer in cui Lina fa capire a Johnnie di sapere cosa c’è nel latte e di essere disposta a berlo lo stesso: dopo quella rivelazione sarà Johnnie a pentirsi e bere il latte, perdendo subito i sensi, ma le scene successive riveleranno che il veleno prescritto non era fatale e il film si sarebbe concluso col risveglio di Johnnie.
Sebbene il finale non combaci con la volontà di Hitchcock di fare di Cary Grant un assassino, quello che si muove silente tra gli inframezzi dei raccordi di montaggio è un senso di ambiguità e terrore, un’aura del tutto inedita che avvolge la figura dell’attore di Susanna!. Pervaso da un senso di disagio e insicurezza, il pubblico si ritrova adesso a gestire una nuova natura del personaggio interpretato da Grant, perché più sinistra e inquietante. Si insinua tanto nella protagonista (Joan Fontaine) quanto nello spettatore un terribile sospetto che troverà la sua massima espressione nella scena del bicchiere di latte, resa ancor più inquietante grazie all’inserimento di una lampadina all’interno del bicchiere, così da esacerbare il suo carattere sinistro e mortifero.

Il sospetto di sospettare
Risulta importante sottolineare come questo senso di sospetto imperante non avrebbe pervaso silente il pensiero razionale dello spettatore senza la decisione del regista di filtrare la visione spettatoriale attraverso lo sguardo della protagonista. Una focalizzazione interna che allude alla visione in piena soggettiva; lo spettatore sa, conosce, le informazioni che sono in mano alla giovane protagonista. Un’immedesimazione totale che acuisce il senso di sospetto verso quell’uomo amato che dietro quell’anima burlesca è capace di nascondere una natura di assassino. Dopotutto Lina è un’avida lettrice, e come tale si lascia trasportare dalla portata immaginifica e realistica delle parole che consuma con fare bulimico. Un trasporto a cavallo della fantasia e dell’auto-suggestione che condurrà la donna – e con essa lo spettatore – a credere davvero che l’amato marito l’abbia sposata solo ed esclusivamente per la sua eredità.
Drammatica suspense acuita da giochi mentali con cui scuotere il proprio spettatore lasciandolo in balia dei propri timori e latenti turbamenti: ecco cos’è il cinema firmato Alfred Hitchcock. La sua produzione è un trattato psico-antropologico, e i suoi film capitoli scritti con l’inchiostro della luce di proiezione. Un viaggio alla scoperta dell’uomo ordinario, tra fobie e ossessioni filtrate dalle paure e debolezze dello stesso regista che nel 1940 fa tappa alla RKO per la realizzazione di uno dei suoi film più sottovalutati: Il Sospetto.
Ci sono vari motivi per cui rivalutare e (ri)guardare questa pellicola. Al di là della tecnica sopraffina, il film con protagonisti Joan Fontaine (premio Oscar nel 1941 proprio per Il sospetto) e Cary Grant, denuncia dal suo interno il potere della produzione, rea di soffocare l’estro creativo degli autori, relegandoli al solo mestiere di “metteurs en scene”. Hitchcock era un maestro della suspense, certo, ma anche dei cambiamenti dei toni e delle convenzioni tipiche dei generi. Tra le sue mani le peculiarità che facevano di una commedia, o un dramma, un genere riconoscibile, potevano soccombere, rivoluzionarsi, o mutare del tutto. Grida e abbracci; amore e odio; sangue e cibo. È un gioco degli ossimori quello portato in scena da Hitchcock; un gioco da riporre in bella vista nella galleria dell’autorialità registica, di cui lo stesso Hitchcock è stato tra i primi a porre le iniziali, essenziali, fondamenta. Una dichiarazione di indipendenza combattuta anche sabotando l’immagine divistica dei propri attori. Lo ha fatto con James Stewart, e lo ha fatto con Cary Grant, protagonista misterioso, ambiguo e per questo mai veramente rassicurante.

Cary Grant e la caduta del divo
Nel 1941 l’attore di Bristol era davvero il re della commedia. I suoi personaggi così solari, ottimisti dalla forte carica attrattiva e un giusto guizzo di ingegno, avevano non solo conquistato il cuore del pubblico, ma plasmato come creta l’immagine divistica a lui associata. Con Il Sospetto Hitchcock percepisce per primo la presenza latente di un lato tenebroso nell’attore di Bristol; un demone insidiatosi tra gli spazi sottocutanei che si aggira furtivo dietro sorrisi sornioni e mimiche rassicuranti che il regista ha saputo chiamare a sé sfruttandolo con maestria per la creazione di Johnnie. Johnnie è diametralmente opposto al divo Grant. È uno “scapolo di bell’aspetto” attraente e amato dalle donne, che dietro quel tuxedo e sorrisi affabili, nasconde un’ombra mefistofelica pronta ad abbattersi. È un uomo pericoloso Johnnie, un enigma, un canto di sirena che ti attrae al suo porto per poi lasciarti agonizzare tra le onde in tempesta. Aysgarth è, soprattutto, nella versione letteraria, un assassino e come tale doveva rivelarsi secondo le volontà del regista. Il produttore Selznick, sapeva che era una mossa troppo azzardata per il pubblico del tempo. E fu così che un altro gigante del cinema si dovette inchinare alla volontà del sistema hollywoodiano preferendo un abbraccio d’amore a una morte dolente.
Uno, due, tre finali
Durante le varie fasi di pre-produzione, Alma Reville (moglie e collaboratrice di Hitchcock) e la sceneggiatrice Joan Harrison spesero giorni e giorni alla ricerca di un finale che mettesse d’accordo produttore e regista. Una delle tante varianti proposte prevedeva il personaggio di Cary Grant arruolarsi nella Royal Force al fine di espiare, attraverso la morte che lo avrebbe colto in un improvviso gesto di fervente patriottismo, le pene del proprio passato. Era una proposta narrativamente debole e poco consona agli interessi di Hitchcock e, pertanto, accantonata. Meglio puntare allora sul disvelamento dell’innocenza di Johnnie, e rimandare i sospetti di Lina all’acuirsi della sua nevrosi. Eppure, nemmeno questo finale sembrava convincere Htichcock visto che ne esiste una differente versione, poi bocciata da un pubblico selezionato a Pasadina e all’Academy Theater di Inglewood, California, nel giugno del 1941. Qui Johnnie, ai piedi del letto, nega a Lina che il latte fosse avvelenato, per poi confessarle tutte le colpe di cui si era macchiato nel corso del loro matrimonio.
Che Hitchcock non rimase comunque soddisfatto da questo tipo di finale lo confermò lui stesso nel corso della sua celebre intervista rilascia a Francois Truffaut, ma anche la stampa dovette risentire di questo alone di insoddisfazione generale se tra le pagine del “New York Times” Bosley Crowther si lamentò del film parlando di un netto discostamento dallo stile hitchcockiano ai danni di un crollo psicologico reo di rallentare e rovinare le battute finali dell’opera.

In difesa dell’autorialità
Hitchcock non ha realizzato il finale dei suoi sogni, eppure quello che il regista ha compiuto senza nemmeno rendersene conto è un qualcosa che supera i confini spazio-temporali della pellicola stessa. Con Il Sospetto il regista gioca con la psiche dello spettatore e come un burattinaio lo tiene stretto a sé per tutti i novanta minuti del film, senza liberarlo dal turbamento di angoscia generato dall’incapacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è semplicemente frutto di una mente debole e psicolabile. Giocando con la cinepresa, tra riprese angolate che schiacciano una Lina tramortita dai suoi stessi sospetti, i contrasti di luce, gli abiti “parlanti” (il bianco dei vestiti di Lina allude alla purezza della vittima sacrificale, mentre il nero di Johnnie alla minaccia del carnefice) e una fotografia che immerge gli attori in un’oscurità totale, Hitchcock punta a una resa più metaforica del personaggio di Johnnie, traducendo in linguaggio filmico i dubbi e i sospetti che scuotono l’anima e l’interiorità della protagonista. Nella mitica scena del bicchiere di latte, Grant fa la sua apparizione come una figura funeraria: è la morte vestita da amante, pronta a togliere dal corpo di Lina la sua linfa vitale. Da simbolo di ottimismo, l’attore è divenuto l’uomo del mistero e, per la prima volta nella sua carriera, Cary Grant fa davvero paura.
Creatore di mondi, misteri e storie, con Il Sospetto Hitchcock non poté far altro che fare un passo indietro e sottomettersi al volere della produzione. Scacco matto, l’autorialità cade e il volere spettatoriale vince. O almeno così sembra. Quello che Selznick non aveva però capito, è che non era la rivelazione di Grant come l’assassino della storia a terrorizzare il proprio pubblico, quanto la capacità del regista di insinuare, in modo sottile e manipolatorio, l’idea che anche questo attore potesse nascondere un lato gotico e oscuro (la stessa operazione verrà riproposta in Notorious). Un attacco sottile, silenzioso, ma comunque potente, sferrato con acume dal regista a un sistema produttivo pronto a soffocare componenti più profondi del suo cinema. Silente, Hitchcock ha fatto a pezzi una a una le ristrettezze che lo legavano a un modo di fare e dirigere che a lui, uomo grande e grosso – e regista ancor più immenso – andavano fin troppo stretti.
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