
Digital Mourning: videoinstallazioni contro la trasparenza | Neïl Beloufa all’HangarBicocca
Lampi stroboscopici di luci laser attraversano nuvole di fumo che, blu, rosse e viola, si sollevano dal pavimento a velare l’ampia penombra della stanza. Ai miei piedi sono disposte quattro grandi macchine enigmatiche, forse vasche criogeniche per l’ibernazione dei corpi (il che spiegherebbe il fumo, dovuto all’azoto liquido) lontane tuttavia dall’immaginario futuristico che tradizionalmente le connota e realizzate invece artigianalmente, quasi secondo un’estetica post-apocalittica. Al centro della stanza, tra le “macchine-vasche”, una scultura in filo tubolare di metallo forma un groviglio dall’aspetto arrugginito, un intrico nel quale si scorgono, tra loro incoerenti, il volto e le gambe di un uomo disgregato.
Questa descrizione, sommariamente tracciata, non si riferisce né al set cinematografico di un film di fantascienza, né a una discoteca o a un parco divertimenti a tema avveniristico/post-apocalittico e neppure allo spazio virtuale di un videogioco che attinga da tale immaginario. Siamo invece negli spazi milanesi di HangarBicocca, al centro di Digital Mourning, la prima grande mostra personale che, a cura di Roberta Tenconi, viene dedicata in Italia a Neïl Beloufa (Parigi, 1985), artista franco-algerino che da più di dieci anni ha incentrato la sua ricerca sull’esplorazione delle dinamiche mediatiche e delle relazioni di potere tipiche della società contemporanea, adottando il video e il film come modalità espressive di riferimento e facendo del digitale l’ambito privilegiato di riflessione.

Economia capitalista e sorveglianza digitale, nazionalismi e post-colonialismo, relazioni diplomatiche e militari, identità e immaginario nella società occidentale sono i temi che Beloufa sceglie di affrontare attraverso l’interazione tra il video e la scultura, all’interno di installazioni che, come dispositivi intermediali, stimolano e interrogano l’esperienza sensoriale dello spettatore, arrivando a configurare l’odierna realtà digitale.
Così, al centro della mostra, tra le nuvole di fumo e le luci da discoteca, a circondare le quattro macchine dalla funzione ignota e la scultura dell’uomo smembrato, Beloufa pone tre figure che, denominate “host”, comunicano con il visitatore e se ne contendono l’attenzione per proporgli, sugli schermi di cui sono provvisti, una selezione della filmografia e dei video dell’artista. Nel frattempo, gli stessi “host” attivano a turno, una per volta e secondo un ordine imperscrutabile che si direbbe algoritmico, le installazioni video che Beloufa ha disposto nello spazio circostante.
Il risultato, ovviamente, è quello di una confusione totalizzante. La fruizione dei contenuti audiovideo non può che essere multi-focalizzata ed epidermica, con la conseguenza che la possibilità di distrazione diviene una certezza. Proprio per l’impossibilità di vedere i film di Beloufa dall’inizio alla fine, accanto agli “host” vengono forniti dei codici QR che, una volta inquadrati con il cellulare, permettono di accedere alla piattaforma Vimeo e quindi ai film interamente caricati. Il discrimine tra l’esperienza fisica del luogo e quella virtuale dei contenuti non ha più così motivo di sussistere – tanto più che gli stessi “host” sono allo stesso tempo opere di crypto arte, collezionabili come NFT – e l’intero meccanismo espositivo si trova a coincidere con quello del flusso digitale che caratterizza la fruizione dell’audiovisivo su Internet. La mostra, allora, approssimandosi a quell’abnorme “meta-medium” orizzontale che è il Web, si fa – forse più ancora che medium – piattaforma mediale, aggregatore di funzioni e servizi convergenti, in bilico tra reale e virtuale.

L’unico modo per sottrarsi alla confusione è quello di allontanarsi dal centro della mostra, dagli “host”, per andare a vedere i film e i video di Beloufa che vengono di volta in volta attivati nelle installazioni adiacenti. Grazie a questo meccanismo di attivazione, la possibilità di vedere i film dell’artista dipende soprattutto dal tempo di visita della mostra. L’esposizione delle opere di Beloufa si pone così, in qualche modo, in analogia con quella dei contenuti sui social media, la cui fruizione può variare in base al tempo, alla frequenza e al momento di ingresso sulla piattaforma. Poiché in un tempo di visita anche lungo risulta impossibile esperire le videoinstallazioni interamente e nella loro totalità, anche il mio discorso non potrà che essere parziale. Mi concentrerò dunque su due installazioni che ho potuto vedere, prima in mostra e poi su Internet (tramite QR code), e dalle quali mi sembra emerga uno dei temi che ad un livello profondo connota maggiormente la riflessione e l’opera di Beloufa: l’opposizione a quella trasparenza, mediale e ideologica, la cui dialettica con l’opacità, dell’immagine e del dispositivo, costituisce uno dei punti cardine della modernità.

La prima installazione che ho visto attivarsi è stata People’s passion, transparency, mobility, all surrounded by water (2018). Si tratta di un insieme di pannelli trasparenti in plexiglas che, muovendosi su un binario, fanno da schermo polimorfico, stratificato e frammentato, del video People’s passion, lifestyle, beautiful wine, gigantic glass towers, all surrounded by water. Realizzato nel 2011 durante un soggiorno dell’artista a Vancouver, il video mostra un panorama cittadino fatto di vertiginosi grattacieli di vetro, fontane dalle acque incredibilmente limpide e parchi dai prati di un verde tanto perfetto da sembrare sintetico. Qui Beloufa raccoglie le interviste degli abitanti (in realtà attori non professionisti coinvolti nella creazione della sceneggiatura) che descrivono la vita in città come un paradiso in terra dove, ad esempio, «le persone sono belle», «hanno un ottimo work life balance» e «la loro vita è piena di colori». Queste descrizioni tanto entusiaste da apparire grottesche, insieme alla marcata esibizione dei microfoni da parte degli intervistati, vogliono palesemente instillare il dubbio che gli abitanti siano attori che stanno recitando loro stessi, come in un reality show o in uno spot pubblicitario, in un’atmosfera di inquietante artificialità che, investendo anche il paesaggio urbano, finisce per offrire uno straordinario ritratto dell’Immaginario della società occidentale capitalista ai tempi dei social media.

Il tema della trasparenza – declinato all’interno del video a livello architettonico nei grattacieli e a livello ideologico negli intervistati che ammettono di preferire l’esporsi alla privacy – viene affrontato da Beloufa anche per quanto riguarda il dispositivo. L’artista incrina il vetro dello schermo non solo, in mostra, attraverso un’installazione che complica le immagini proiettate fino a negare la trasparenza dei pannelli in plexiglas, ma anche, con il video stesso, attraverso una presentazione sempre esageratamente scorciata delle inquadrature che, come in una sorta di décadrage meta-cinematografico, non sono mai aderenti al riquadro, prospetticamente non risultano mai coincidenti con il punto di fuga della finestra dello schermo, e dichiarano invece, sempre e marcatamente, la loro natura proiettata, come ben indica la lente luminosa del proiettore presente in ogni scena e che, a sottolineare l’artefatto del video, coincide ogni volta con il punto di provenienza dei raggi solari.

Se le architetture di vetro di Vancouver sono già indice di una società panottica – e a tal proposito, pensando alla storia del cinema, non si può non citare almeno Glass House, il grande progetto incompiuto di Ejzenštejn – il tema della sorveglianza, ottica e digitale, viene più direttamente trattato nella seconda videoinstallazione che gli “host” hanno attivato quando ho visitato la mostra: Data for Desire (Rationalized room series) (2015). Si tratta di un interno domestico realizzato in filo tubolare di metallo, ad imitazione, materica e tridimensionale, della rappresentazione 3D in grafica vettoriale (il wireframe informatico). Nella struttura è inserito uno schermo sul quale è mostrato il video Data for Desire (2015). Beloufa riprende una festa in giardino tenuta da un gruppo di giovani canadesi e, adottando gli stilemi del reality show, intervista sei dei partecipanti (tre ragazze e tre ragazzi) impegnati in un intrigo amoroso, tra tentativi di seduzione e gelosie. Nello stesso momento, in Francia, un gruppo di studenti al computer osserva lo svolgersi della festa e, disponendo di tutti i dati dei sei partecipanti, cerca di elaborare un algoritmo con il quale poter predire quali coppie andranno a formarsi. A differenza del video precedente, qui il ricalco della trasparenza non avviene attraverso la messa a nudo del dispositivo, quanto piuttosto concentrando lo sguardo dello spettatore sulla condizione voyeuristica degli studenti francesi, con un procedimento meta-cinematografico che è lo stesso che Hitchcock aveva adoperato nel celebre Rear Window (1954), anche se, significativamente, alla finestra sul cortile qui si sostituiscono gli schermi dei computer.

Attraverso queste due installazioni credo si possa tornare al centro della mostra, in mezzo agli “host”, con una maggiore consapevolezza. I meccanismi utilizzati per mettere in crisi la trasparenza sono infatti gli stessi che si possono ritrovare anche qui, tra le macchine enigmatiche e le luci laser. Rispetto alla trasparenza del medium, infatti, nell’allestire questa mostra come un articolato complesso ipermediale, Beloufa pone una forte opacità oltre il vetro (e di questa opacità la cortina di fumo che si solleva dal pavimento può essere considerata un’efficace visualizzazione). Il risultato è quello di rendere riflettente quella che prima era una superficie solo trasparente, e così, osservando la scultura dell’uomo disgregato tra reale e virtuale, diventa facile riconoscersi allo specchio.
Tuttavia, nello stesso momento in cui attraverso la reduplicazione visuale dell’immagine Beloufa produce quella distanza necessaria ad ogni movimento coscienziale, l’artista si spinge oltre. Muovendoci in mostra ci accorgiamo infatti di esplorare una realtà percettiva seconda (virtuale) il cui effetto vertiginosamente inquietante consiste nel coincidere con la realtà. Siamo entrati nello specchio e non possiamo più uscirne. Nel parco divertimenti/discoteca ci accorgiamo che, come il titolo della mostra (Digital Mourning) ci aveva avvisato, stiamo in realtà celebrando il funerale del Reale. “Il delitto perfetto” (Baudrillard) è stato tale al punto da tramutare il lutto in festa, e se si cercasse il cadavere non lo si potrebbe trovare, forse perché occultato in quelle macchine che ho chiamato “vasche criogeniche”, e che, proprio per l’atto di rimozione della morte che l’ibernazione comporta, credo possano valere come figure esemplari delle odierne dinamiche tra reale e virtuale. L’elogio funebre del Reale pronunciato da Beloufa non può non consistere, allora, in quelle domande che ci accompagnano all’uscita dalla mostra quando, frastornati, ci chiediamo se siamo davvero usciti e se ancora abbia senso chiederselo.
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