
Vedere e toccare l’immagine | Steve McQueen in mostra all’HangarBicocca
Regista premio Oscar per 12 anni schiavo (12 Years a Slave, 2013) e premio Caméra d’Or a Cannes per Hunger (2008), Steve McQueen (Londra, 1969) approda al lungometraggio con lo sguardo di chi ha a lungo interrogato l’occhio della macchina da presa e, circumnavigandolo, ha provato a mapparne le traiettorie proiettive. Con una carriera quasi trentennale e mostre nei più importanti spazi espositivi del mondo, McQueen è infatti uno dei più rilevanti protagonisti del cosiddetto “Exhibited Cinema”. Le sue installazioni, in mostra fino al 31 luglio presso Pirelli HangarBicocca (Sunshine State, a cura di Vicente Todolì), sono complessi dispositivi audiovisivi, macchine sceniche che si fanno cinematiche e interrogano radicalmente lo statuto dello schermo cinematografico. Gli schermi di McQueen, infatti, confondendo il limite tra visibile e invisibile, rappresentazione e immersività, e, forse nel modo più limpido e aderente possibile, tra ottico e tattile, si pongono come interfacce relazionali, spazi di mediazione che, capaci di separare e connettere, finiscono per ridefinire la soggettività di chi osserva.
L’attenzione di McQueen per le condizioni spettatoriali e spaziali proprie del cinema si palesa già all’ingresso della mostra, nel passaggio tra lo Shed illuminato a giorno e le buie Navate. Entrare in mostra significa addentrarsi nell’oscurità di un enorme sala cinematografica, un polifonico spazio di proiezione che ospita al suo interno, variamente disposti, molteplici proiettori e relativi schermi. All’interno di questo spazio vorrei provare a tracciare un percorso, uno dei molti possibili, che si snodi tra alcune delle installazioni di McQueen all’insegna del dialogo tra due delle dimensioni proprie dell’immagine filmica: la dimensione ottica e quella tattile.

Il primo schermo che si incontra – enorme, calato dal soffitto e sospeso a mezz’aria – ospita la proiezione di Static, 2009. Nei sette minuti di filmato ad essere ritratta è esclusivamente la Statua della Libertà di New York, ripresa da un elicottero (che le ruota incessantemente attorno) in occasione della prima riapertura al pubblico dopo l’11 settembre 2001. Sottoposto allo sguardo corrosivo di McQueen, al pari dell’umidità dell’Hudson River e della salsedine dell’Atlantico che hanno ossidato la superficie della Statua, il valore di monumento di una delle più potenti icone della società americana viene messo radicalmente in crisi. A livello ottico, la staticità della statua, centro di gravitazione del moto dell’elicottero e dello sguardo, viene agitata dal ritmo vertiginoso delle riprese, talvolta accelerate al punto da far perdere l’equilibrio. A questa “messa in movimento” dell’immagine collabora anche la natura delle inquadrature che, sempre instabili e nervose, alternano close-up a campi lunghi. Se i close-up, tremolanti, isolando dettagli della fiaccola e della tavola danno l’impressione che la presa delle mani non sia salda e che questi simboli possano cadere, i campi lunghi riprendono sullo sfondo i grattacieli della città, una miriade di finestre, potenziali occhi che sorvegliano. A livello sonoro, poi, questi temi fondamentali della società post 11 settembre vengono evocati dal rumore assordante delle pale dell’elicottero, un rumore che, in qualsiasi film di guerra (impossibile non pensare ad Apocalypse Now), comunica l’imminenza di un attacco militare. A livello tattile, infine, la solidità e l’integrità del monumento vengono messi in questione dall’indugiare della macchina da presa sulla veste della Statua, sulle pieghe voluminose in molti punti corrose e arrugginite, annerite o scolorite.

È su questi tre livelli percettivi che McQueen costruisce lo schermo come interfaccia. La proiezione del filmato al fronte dello schermo avviene, in perfetta sincronia, anche al retro. In tal modo, lo spettatore può circumnavigare lo schermo, in totale continuità con il movimento della macchina da presa. Lo statuto ottico dell’immagine si trova quindi a collassare sul soggetto che l’immagine ritrae. Lo schermo si fa statua, oggetto tattile, dotato di quello stesso corpo, imponente e corroso, sul quale si concentra lo sguardo del regista. Il confine tra spazio cinematografico e spazio espositivo, oltrepassato dallo spettatore in movimento, appare confuso anche a livello sonoro, quando al rumore dell’elicottero seguono lunghe sequenze mute che, così, integrano il silenzio dello spazio espositivo. Sembra tuttavia importante notare che, con un movimento trattenuto, proprio quando McQueen “calca la mano” sul valore tattile dello schermo, allo stesso tempo mantiene una forte cornice ottica. Dal retro dello schermo, sospeso a mezz’aria, possiamo infatti osservare chi sta guardando il filmato al fronte dello schermo stesso. Ci troviamo quindi di fronte ad un ambiguo dispositivo speculare, in bilico tra rappresentazione e immersività, costruzione del soggetto e sua dissoluzione nello spazio del Cinema. Una struttura in tensione che ritorna come una costante in quasi tutte le installazioni di McQueen e che, come tale, potrebbe essere indagata.

Evidentemente costruite sulla confusione di ottico e tattile, alla ricerca della natura più fisica della pellicola, sono poi i due film Cold Breath, 1999 e Charlotte, 2004. Nel primo, McQueen riprende esclusivamente, con un close-up di circa 10 minuti, il proprio capezzolo nell’atto di essere palpato. Con un’ironia queer che attraversa una parte considerevole della sua produzione video, il regista inglese allude qui alla natura femminile dell’immagine, evocata non solo dall’allusione erotica, ma anche dal possibile riferimento psicanalitico al seno materno come oggetto di proiezione per il bambino. Nel secondo, ancora con un lungo close-up, viene ripreso l’occhio dell’attrice Charlotte Rampling e il dito indice di McQueen che si avvicina fino a toccarne l’iride. Anche qui l’allusione erotica è palese: dalla palpazione della palpebra al dischiudersi dell’occhio, in un crescendo di tensione che, giunta al culmine – al tocco sensuale e demiurgico – svanisce.

È soprattutto in Charlotte che questo rapporto amoroso tra il vedere e il toccare l’immagine sembra declinarsi anche a livello spaziale, coinvolgendo e confondendo i confini tra la macchina cinematografica e lo spettatore. L’installazione prevede infatti che proiettore, schermo e osservatore si trovino sulla stessa linea retta: ad un estremo si colloca il proiettore (un grande Eiki 16 mm), nello spazio centrale l’occhio di Charlotte proiettato a schermo, mentre all’altro estremo si trova l’occhio dello spettatore che osserva. Collocati dunque sulla medesima linea dello sguardo, all’altezza del punto di vista, l’occhio del proiettore sembra porsi come estensione protesica dell’occhio umano, lo schermo farsi interstiziale spazio di proiezione, e il Cinema venire così, mirabilmente, a configurarsi come organo tecnico.

Pur tralasciando videoinstallazioni fondamentali (come Sunshine State, 2022 eponima della mostra), e con l’invito a visitare l’HangarBicocca, vorrei concludere con l’installazione Western Deep, 2002. Il film, realizzato in occasione della storica Documenta 11 di Kassel del 2002, è stato girato nella miniera sudafricana di Tautona, la miniera d’oro più profonda del mondo, chiamata anche Western Deep n. 3 Shaft. Secondo quella struttura ambigua tra rappresentazione e immersività che caratterizza le installazioni di McQueen, lo spettatore siede in una sala di proiezione, realizzata secondo la tradizionale architettura spettatoriale, e tuttavia si cala percettivamente entro l’immagine filmica. La discesa nella miniera avviene visivamente in modo straordinario: con una disillusione totale delle aspettative ottiche del pubblico, i primi 6 minuti del film sono a schermo nero, mentre il sonoro, spesso muto, si fa assordante quando riproduce i rumori tipici dei lavori di scavo.

All’interno della sala di proiezione e, allo stesso tempo, all’interno dell’immagine della miniera, lo spettatore si trova sospeso, dunque, tra l’assistere ad una rappresentazione e il percepirla sensorialmente. A questo collaborano diversi elementi: l’oscurità e l’effetto di claustrofobia visiva, il disorientamento uditivo provocato dall’alternanza tra muto e sonoro, lo smarrimento reale, tra i cunicoli della miniera, e finzionale, per la mancanza di qualsiasi direttiva autoriale. Nel loro insieme, questi elementi conferiscono al film una fortissima dimensione onirica, direi febbricitante, come sembra indicato anche dalle sequenze in cui ai minatori, sottoposti a visite mediche, viene misurata la temperatura corporea. Ed è proprio in questa atmosfera da incubo, in questa commistione di spazi interiori ed esteriori, che lo spettatore può entrare in relazione con quelle presenze fantasmatiche, proiettate, che sono i minatori nel film.
Un’altra ambiguità fondamentale su cui si costruisce il film è quella tra l’atto del mostrare e quello del nascondere, un ambivalenza tipica di quello che Mauro Carbone ha definito “archi-schermo”1. In questo senso, la sequenza iniziale a schermo nero ci pone una domanda fondamentale: nel momento in cui ci viene mostrata l’oscurità della miniera, cosa ci viene nascosto? L’assenza più visibile, senza dubbio, è quella del bianco e dell’oro. In Western Deep, infatti, rispetto all’oscurità della terra e della pelle dei minatori, l’unica apparizione del colore bianco è associata (significativamente, pensando al Sudafrica e non solo) ai camici dei dottori che sottopongono i minatori a esercizi di resistenza e visite mediche. L’oro, invece, nel film è del tutto assente. E tuttavia, allargando lo sguardo all’esposizione nel suo complesso, ci si accorge di aver già visto dell’oro nella fiaccola che, placcata, viene retta dalla Statua della Libertà in Static, 2009. Nelle profondità di Tautona, ci dice chiaramente McQueen, il fuoco eterno della libertà non arde. E la stessa crudele diseguaglianza coinvolge anche lo spettatore, come suggerisce l’immagine finale del film: un minatore si assopisce dietro una grata, l’immagine svanisce al chiudersi delle sue palpebre, e, subito dopo, le luci in sala di proiezione si accendono. Entrati nella miniera-installazione, noi possiamo uscirne; lui resterà per sempre, fantasma e prigioniero, nei più oscuri recessi dell’immagine.

1 M. Carbone, Filosofia schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina Editore, 2016. Rimando in particolare alle pp. 99-109 per il possibile parallelismo che si potrebbe tracciare fra la miniera di Western Deep e le grotte di cui parla Carboni: la grotta Chauvet, ripresa da Werner Herzog in The Cave of Forgotten Dreams, e soprattutto la caverna del celebre mito di Platone.
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