
Anatomia – Viaggio nella memoria
Presentato il 5 settembre alla 78esima Mostra del cinema di Venezia nella selezione Giornate degli autori, Anatomia è il lungometraggio di finzione di debutto della regista e scrittrice polacca Ola Jankowska, girato dopo svariati corti e un documentario (I Was Here, 2019). L’opera segue le vicende di Mika (interpretata da una impassibile Karolina Kominek) ragazza polacca il cui padre perde la memoria e si avvia verso la morte dopo che un apparecchio inserito nel suo corpo cessa di funzionare. L’ultimo periodo di vita del padre diviene per Mika il luogo di una riflessione e rievocazione di momenti della propria esistenza, in un’unione tra digitale, 35mm, infrarossi, VHS e filmati d’archivio.
L’opera è suddivisa in cinque sezioni: cervello, cuore, sangue, stomaco, morte.

Il film comincia con una scena dal sapore surreale in cui vediamo il corpo della protagonista, qui fatto di luce, muoversi in una stanza buia; ed e già è chiaro che, nonostante il realismo della vicenda narrata, essa faccia riferimento ad un altrove che rimane solo alluso ma palpabile durante tutta la visione. Questo tipo di scena tornerà nel corso del film, che alterna atmosfere oniriche ed evocative in continua contrapposizione con una serie di campi vuoti dalla fotografia fredda e asettica, spesso ambientati all’interno dell’ospedale oppure in una Varsavia notturna: la contrapposizione tra realtà interiore e realtà esteriore, tra invisibile e visibile.
In una scena ambientata all’interno di una stanza vediamo gli oggetti e l’arredamento inquadrati dall’obiettivo di una macchina fotografica, che punta poi verso lo specchio: ciò che l’autrice vuole è sondare l’individualità, l’identità della protagonista, in un’opera fortemente intimista.
La macchina da presa non si muove mai, dando vita ad inquadrature completamente statiche che contribuiscono, insieme al montaggio, all’estrema lentezza della pellicola, la quale scorre con una certa pesantezza.
Che peso ha il tempo, dove finiscono i ricordi? L’intento primario di Ola Jankowska è quello di creare un’opera che rifletta sulla memoria, sul rapporto tra passato e presente: ricorrenti sono infatti i filmati di famiglia, ricordi della protagonista, strumenti per scavare in quel vissuto ormai rimosso dal padre, nel tentativo di mantenere quella memoria che irrimediabilmente scivola via.

Fra i vari tempi morti troviamo alcuni momenti suggestivi – è possibile intuire una certa influenza lynchana nella scena di danza, in cui Mika si sfoga in un ballo liberatorio sullo sfondo della parete di un locale, immersa in un turbinio di luci stroboscopiche al ritmo di Smalltown Boy dei Bronski beat, per poi sedersi al tavolo con un’altra donna e sprofondare nuovamente in uno dei suoi interminabili silenzi, sconsolata, in un brusco ritorno alla realtà: il momento magico è finito e la ragazza è tornata alla sua alienazione.
Questa alienazione è sottolineata dalle voci degli altri personaggi, che sono spesso off, come quella del medico che illustra inizialmente a Mika la situazione del padre, o i mormorii indistinti di chi la circonda, che evidenziano la soggettività del punto di vista e il silenzio estraniato della protagonista, inespressiva per quasi tutta la durata della pellicola, fino al momento in cui esplode, infine, in un catartico pianto.
La voce off viene riproposta in una scena dal sapore fiabesco, che restituisce la magia della memoria tramite ombre cinesi che si trasformano in animali del bosco mentre quello che è probabilmente il padre narra favole evocative dell’infanzia. Le ombre cinesi torneranno alla fine, stavolta create dalla protagonista, sul letto vuoto del padre.
Le ultime inquadrature confermano il tono sperimentale dell’opera: su una galassia che si illumina gradualmente, un voice over comunica con l’altrove, creando quel ponte tra la vita e la morte a cui l’autrice aspira.
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