
America Latina – Viaggio al termine di un uomo | Venezia 78
Alla viglia della presentazione dei film in gara a Venezia 78, in pochi si aspettavano di trovare tra i titoli in concorso America Latina, terzo lungometraggio di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Si sarebbe potuta pronosticare una pausa più lunga, dopo la consacrazione a Berlino70 per Favolacce (2020) – un po’ per la vittoria del prestigioso Orso d’Argento alla miglior sceneggiatura, un po’ perché Favolacce è un film che ha avuto il merito di far discutere vivacemente pubblico e critica per molto tempo -.
Fortunatamente per noi però, i due gemelli di Tor Bella Monica sono cineasti famelici, che non si bastano mai, ed è per questo che hanno deciso – proprio durante la kermesse berlinese – di scrivere una nuova sceneggiatura, una storia – o forse una non-storia – su un personaggio singolo, una discesa agli inferi di periferia, ma soprattutto psichica, interna.

In effetti, il film in concorso al lido appare come un negativo di Favolacce. La frammentazione episodica e vignettistica, che nel film precedente slacciava il racconto, facendo basculare l’istanza narrante tra una villetta e l’altra, qui non è semplicemente assente, ma invertita totalmente. Elio Germano, protagonista che seguiamo per l’intera opera da una prospettiva interna scissa, in perenne bilico tra la ragione e l’allucinazione, invade massivamente le inquadrature, si lascia sondare dalla macchina da presa nel suo volto alienato, diventa perno focale per le ardite prospettive che i due registi adottano per inquadrarlo.
Già, perché a livello espressivo questo film “di ricerca” è il più estremo dei D’Innocenzo, che qui abbandonano il realismo poetico de La terra dell’abbastanza (2018) ed estremizzano il dato formale di Favolacce. L’iperrealismo allucinatorio che isolava i giovani protagonisti negli spazi desertici e iper-saturi della periferia romana qui si rabbuia e restringe, avvicinandosi al soggetto e dividendolo dallo spazio circostante.

La scenografia geometrica, piena di texture asfissianti (ricorda Nimic di Lanthimos), e la fotografia ora buia, ora sovraesposta, contribuiscono a creare un’atmosfera che gioca con l’immaginario horror di Dario Argento, ma anche con alcuni formalismi gotici e crudi, tipici dell’espressionismo tedesco. È una modalità di racconto estrema, iper-estetica, che usa crismi linguistici del passato (vedi gli zoom super-veloci anni Settanta), vicina più all’immaginario fotografico e video-installativo ma comunque non asfissiante ai danni della storia, perché utile a restituire la separazione tra individuo e contesto.
Ad esempio, poco dopo il ritrovamento della giovane misteriosamente legata in cantina, il protagonista raggiunge la moglie dormiente: lo scorgiamo da fuori la finestra, chiuso nella sua rocca inquietante, immerso nel riflesso della siepe antistante la casa. È una doppia immagine, che grazie al vetro della finestra include soggetto e soggettiva nello stesso quadro, ma è anche un’immagine profetica, che ci parla della sparizione di un’individuo immerso nel contesto borghese.

Di questo trattava anche Favolacce: status e distruzione, abitudine straniante e spietata esplosione che avanza poco a poco. Ma tutto questo, in America Latina, è già dato come prodromo. La vicenda peculiare qui, è la ricerca di una colpa: per sentirci ancora figli, per ritornare al contatto con le cose, ma soprattutto per poterla espiare ed essere liberi di differire dalle nostre aspettative (vedi Niente da nascondere, Il nastro bianco e molta filmografia di Haneke).
Quello che ne risulta è un film certamente respingente, per certi versi involuto, arroccato in sé stesso e nel suo laconico e tiranneggiante protagonista; ma America Latina è anche una spiazzante prova espressiva, un thriller d’art narrativamente meno sfilacciato di Favolacce. La sensazione è che i fratelli D’Innocenzo abbiano solamente iniziato la loro ricerca. Di certo, autori di questo tipo non possono che essere un toccasana per il cinema italiano, non tanto per aver allontanato la “storia di periferia” da un orizzonte visivo ormai istituzionale, fatto di regie assoggettate alla storia, ma piuttosto per il loro questionare il cinema – in questo caso di genere – nella sua interezza, scindendo le coscienze dei personaggi, soggettivando il pensiero e delineando un nuovo modo di unire storia e immagine.
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