
Un autre monde – La schiavitù del lavoro | Venezia 78
Il nono lungometraggio del regista e sceneggiatore francese Stéphane Brizé, presentato in concorso alla 78esima Mostra del cinema di Venezia, costituisce il terzo capitolo della sua trilogia sul mondo del lavoro. Come nelle due precedenti opere, La legge del mercato (2015) e In guerra (2018) , Vincent Lindon interpreta il protagonista, Philippe Lemesle, il dirigente di un’azienda di successo alla quale vengono imposti esagerati tagli al personale. Philippe si trova così diviso tra la necessità di eseguire gli ordini che giungono dall’alto e il proprio senso morale, in una corsa senza tregua e senza il tempo per questioni come l’umanità e la correttezza (in diverse scene vediamo l’uomo inquadrato mentre si affanna sul tapis roulant).

Il film si apre con un lento movimento di macchina su una parete che mostra le foto della famiglia del protagonista, e lo sguardo dello spettatore indugia su ciò che l’uomo ha dovuto trascurare e sacrificare nel corso degli anni per perseguire la propria carriera- come vedremo poi, la figlia, distante, non è altro che un’immagine virtuale sullo schermo di una videochiamata, mentre il figlio, probabilmente autistico, si trova in un centro. Da qui in poi il film mette in scena una continua serie di discussioni: la conflittualità è il suo elemento portante, inizialmente tra Philippe e la moglie da cui si sta per separare (Sandrine Kiberlain), affiancati ognuno dal proprio avvocato, successivamente tra Philippe e i suoi collaboratori e sottoposti sul luogo di lavoro.

La sceneggiatura avanza ad un ritmo lento, costituita da un susseguirsi di scene estremamente lunghe formate principalmente da campi e controcampi dei personaggi che discutono tra loro, tramite le quali l’autore intraprende una riflessione sul contrasto tra il lato economico e il lato umano del mondo lavorativo. «Un’azienda è fatta di persone che lavorano», ricorda uno degli impiegati dell’impresa ad un Philippe messo alle strette: il freddo mondo aziendale, del quale la crudeltà e indifferenza vengono messe in evidenza da una fotografia spesso sui toni freddi del grigio, non tiene però in conto il fattore umano. Il protagonista, che vive di fatto un’esistenza a metà, viene inquadrato spesso di profilo, da un solo lato. In numerose inquadrature sono presenti oggetti fuori fuoco (il cofano di una macchina, la nuca di un personaggio) che impallano l’immagine, elementi di disturbo che sporcano la visione, a simboleggiare la mancanza di chiarezza che Philippe affronta nel corso della vicenda. La sua posizione tuttavia è abbastanza chiara allo spettatore fin dall’inizio; dopo l’incontro con gli avvocati vediamo un piano sequenza in cui Philippe e la moglie si rassicurano l’un l’altra sulla secondarietà delle questioni economiche rispetto all’affetto che li lega.
Un’opera di riflessione sulla schiavitù alla quale l’uomo, finanche il più realizzato, viene ridotto a causa della necessità di lavorare – eloquente la scena in cui il burattino di pezza del figlio viene inquadrato mentre avanza, mosso dai fili tenuti dal ragazzo, con la voice over di Philippe che si rifiuta di sottostare a determinate logiche. Come nota di speranza finale, il film si chiude però con un’inquadratura in contrapposizione con la prima: ora la famiglia è unita nella vita reale, sullo sfondo di un campo soleggiato, e non si limita più ad un paio di foto incorniciate su una parete.
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