
Ariaferma – Il carcere come limbo dell’esistenza | Venezia 78
In Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, dodici detenuti sono costretti a restare in un carcere dismesso a causa di alcuni problemi burocratici. Il trasferimento potrebbe attuarsi da un giorno all’altro ma il carcere è ridotto nelle sue funzioni, le attività sospese, la direttrice assente. Coi carcerati rimangono pochi agenti con a capo l’ispettore Gaetano Gargiulo.
Entrambi i gruppi sono in prigionia, bloccati in uno stallo coatto che li obbligherà a fare i conti con i ruoli e le funzioni a cui sono abituati. L’edificio in cui sono rinchiusi è un carcere atrofizzato, minato nella sua piena funzionalità. Per economia di spazi e risorse, vengono trasferiti tutti nella rotonda, in cui gli agenti, posti al centro, hanno uno punto di vista panottico sulle celle che li circondano, ma ne sono al contempo spazialmente imprigionati.
Di Costanzo è bravo a far dialogare storia e ambienti, sfruttando la scenografia severa dell’ex carcere San Sebastiano di Sassari. Nonostante un’apparente trasparenza del dato linguistico, la sua regia non teme di usare le chiusure delle celle come dissolvenze a nero, le torce delle guardie come fonte luminosa attiva e semantica, nell’inquadratura.

Il raccordo di sguardo, massivamente usato per tutta la durata del film, connota la poetica di Ariaferma, nelle sequenze in cui gli agenti guardano circospetti l’interno delle celle, che come tableaux vivants si disseminano intorno a loro. Alla cesoia coatta del montaggio sopravvive quindi una linea immaginaria tra uno sguardo e l’altro, come se i due diversi punti di vista valicassero le linee dure della prigione.
La fotografia incupita da un’improvviso black-out sarà occasione di una restituzione visiva del grande dubbio – concettuale ma anche esistenziale, teorico ma perennemente legato alla vicenda intima dei personaggi – che permea tutto il film: un detenuto serve solamente a scontare la sua pena? C’è differenza tra un carceriere e un carcerato quando entrambi sono impossibilitati ad andarsene?
Ariaferma dissemina queste domande senza declamarle, delineando un’atmosfera che gioca con l’assurdo di un qui e ora unito – vedi l’imprescindibile Deserto dei Tartari di Valerio Zurlini – pur non distaccandosi da un’approccio realista, dato anche dalle ottime interpretazioni di tutto il cast capitanato da Orlando e Servillo.

I due attori partenopei, per la prima volta insieme, regalano una performance sottrattiva e magnetica, giocando sulla specularità dei ruoli e sul tenero e commovente rapporto con il giovane detenuto Fantaccini, delegato agli spazi “evasi” della cucina e dei corridoi periferici.
Proprio a proposito di questa linea narrativa, si può intendere Ariaferma, piuttosto che un film di denuncia sulle condizioni dei carcerati, come un’opera in cui si affresca la possibilità di un nuovo modo di esercitare la paternità intesa sia come istituzione che come senso di appartenenza – e non è un caso se uno degli scambi più importanti e sorprendenti tra i due attori ha come oggetto la figura paterna.
Di Costanzo non fornisce, saggiamente, risposte, ma suggerisce un universo ideale – forse utopico – in cui legge ed empatia non si autoescludono, così come detenzione e collettività, pena e valorizzazione della persona. L’unicità del film risiede, nonostante quanto detto, nel non fossilizzarsi nella teorizzazione, riuscendo a vibrare attraverso i suoi interpreti, mostrando la materia umana.
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