
Shang-Chi – Sull’importanza dei nomi
Era l’estate del 2019 e il mondo era ancora in piena sbornia post-Endgame, quando al Comic-Con di San Diego venne annunciato, fra le altre cose, il cast di Shang-Chi. Non è esagerato definire quello fumettistico un personaggio di serie C, considerando che il figlio di Fu Manchu nacque sulle pagine dei fumetti nel 1975, due anni dopo la scomparsa del compianto Bruce Lee, il quale aveva lasciato un segno indelebile nella storia di Hollywood. Prima ancora che al cinema, la Marvel sperimentava coi generi cinematografici già nei fumetti e in un certo senso tutti gli anni ’70 possono essere inquadrati come il decennio sperimentale dei fumetti, sia per le loro trame più mature e complesse, sia per le continue contaminazioni con gli stilemi cinematografici che all’epoca spopolavano. Dalla blaxploitation (si pensi a Blade e Luke Cage) passando per l’horror e il pulp (Werewolf e Moon Knight su tutti) fino appunto alle arti marziali. Se si esclude il fallimentare tentativo di portare il poco più noto Iron Fist nella serialità televisiva del MCU, Shang-Chi dovrebbe essere quindi il primo “ritorno” del genere arti marziali al suo luogo d’origine, appunto il cinema. Il risultato è un film poliedrico, godibile ed equilibratissimo che sfrutta il suo alto tasso di spettacolarità visiva (un misto di CGI e performance fisiche di alto livello) per trattare un tema, come spesso accade nei film Marvel, più articolato e profondo, in questo caso l’importanza dei nomi.

È già stato ampiamente ribadito in maniera indiretta anche dai trailer. Nonostante buona metà del film sia ambientato in Asia, Shang-Chi non ha nulla da dire al pur appassionatissimo e vastissimo pubblico asiatico, allo stesso modo di come Black Panther non parlava al pubblico africano pur essendo ambientato in Africa. Le vicende iniziano a San Francisco e non a caso; parliamo infatti di una delle città della West Coast con una delle più importanti comunità asiatiche di tutti gli States e a ben guardare la scelta non è neanche del tutto originale se consideriamo che un altro film “quasi” Marvel, ovvero Big Hero 6, è ambientato nella poco immaginaria “San Fransokyo”.
Fin dai primi minuti è chiaro che la comunità asiatico-americana è la destinataria di un messaggio tanto tradizionale quanto innovativo, almeno nella sua metodologia espressiva: siate chi volete essere, ma siatelo con noi. In questo senso, Shang-Chi è non sorprendentemente un film patriottico, sia pure un patriottismo liberal e molto poco conservatore, dove l’America, pur con tutte le sue contraddizioni mai comunque negate già a partire dal primo Iron Man, è il classico punto di incontro e di opportunità per chi è abbastanza puro e determinato da coglierle. Shang-Chi è un’espressione perfetta di quel soft power che da sempre contraddistingue le grandi produzioni hollywoodiane: divertimento, avventura, viaggio dell’eroe, ma soprattutto il delicato equilibrio tra l’espressione individuale del protagonista (anzi dei protagonisti) e la rappresentazione del suo contesto culturale d’appartenenza.

L’America di Shang-Chi e in generale di tutto l’MCU è un’America riconoscibilissima fin nei più piccoli dettagli. Dalle strade di San Francisco ai rapporti domestici tra familiari, fino allo slang urbano. Bisogna ringraziare la comica e rapper Awkwafina che con il suo personaggio di Katy porta sulle sue spalle tutta la carica identitaria della comunità asiatica americana («il mio cinese non è un granché») in un ruolo che è molto di più della semplice comprimaria o spalla comica ma è anche e soprattutto un manifesto di una femminilità autentica che passa anche da una fiera body positivity.
Se l’America è riconoscibile in tutto e per tutto, l’esatto opposto bisogna dire per l’altro grande continente qui chiamato in causa, l’Asia e in particolare la Cina. Qui si assiste a un lavoro del tutto paragonabile al Wakanda di Black Panther. L’Asia di Shang-Chi è un luogo letteralmente fuori dallo spazio e dal tempo, dove la mitologia tradizionale cinese si incontra con i costumi tipici di antiche tribù. Tutto ciò che può essere anche solo minimamente ricondotto all’attualità sociopolitica cinese viene abilmente glissato dal lavoro di scrittura che si impegna a fondo per mostrarci una terra intrisa di leggenda e misticismo. È una Cina che vive ancora forse solo nei racconti e nelle storie dei genitori e dei nonni degli asiatico-americani e si tramanda di generazione in generazione appunto solo così, con le storie.

C’è solo una piccola ma molto significativa parte di vera e propria discussione sociologica attuale in Shang-Chi: i nomi. Chi è davvero Shang-Chi? A seconda di a chi lo chiediate (e in quale punto del film) otterrete una risposta diversa. Per alcuni è un parcheggiatore, per altri un artista marziale insuperabile, per altri ancora il figlio di uno spietato assassino, un fratello assente o un amico poco affidabile. Forse Shang-Chi è tutto queste cose o nessuna, ciò che conta è il suo nome, che anticipa sempre il filtro con il quale il personaggio deve confrontarsi nelle varie situazioni. Molte critiche, infatti, sono state sollevate alla recitazione di Simu Liu, tacciata di essere mono espressiva. In realtà Liu riesce benissimo a interpretare quel senso di spaesamento che ci si aspetta da chi non è sicuro di cosa egli sia veramente. Tutto il film si poggia sulla ricerca di sé che passa dal riconoscimento e appropriazione di un nome che forse non ci scegliamo ma che possiamo fare nostro nel momento in cui ci confrontiamo con la nostra eredità. Un’eredità storica ma anche antropologica dove i più anziani rivendicano la propria appartenenza storica («qual è il tuo nome da cinese?») mentre i più giovani sfuggono a queste etichettature per appropriarsi di spazi e relazioni.

Shang-Chi è quindi sì un film di arti marziali ma anche un fantasy soprattutto a partire dal terzo atto. È una storia di formazione tra le più classiche e inflazionate ma anche una ventata di freschezza e inclusività sotto molti aspetti. È un film carico d’azione e humor ma che non evita il confronto con la ricerca dell’individuo e l’identità culturale. Un film familiare e inaspettato allo stesso tempo che sviluppa una storia complessa a partire da una semplice domanda: chi sei veramente?
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