
Negare per credere: Unbelieveble, la serie Netflix
Siamo sempre disposti a calarci nei panni del protagonista? Doppio click su Netflix, selezioniamo Unbelievable (otto episodi, che sarà mai), un “tap” su riproduci. Il brivido dell’immedesimazione si assidera presto se ci immergiamo nel ruolo di Marie, ragazza orfana di diciotto anni che ha appena subito uno stupro; ignari quanto lei, stiamo per andare in contro alla violenza di una violenza, la cosiddetta colpevolizzazione della vittima: da prede quali eravamo allora ci trasformiamo in astute serpi, che puntano, con certe fantasiose e poco originali esternazioni, ad attirare a sé dell’attenzione e forse anche un po’ di denaro. Ora, per fare un’analisi lucida di questa ben riuscita serie femminista, cambiamo prospettiva ed esattamente come i primi poliziotti che si sono occupati del caso, ragioniamo all’inverso. Diciamo tutto ciò che Unbelievable (2019) non è.
Eliminata subito la possibilità che si tratti di una fiction architettata a puntino dal genio maligno del politicamente corretto: si parla di una storia vera, vissuta, subita. Siamo tenuti in ostaggio dall’aspetto biografico, una lama alla gola e un sussurro based on a true story. Allora Marie esiste, è stata stuprata e non è stata creduta. Sulla testa della ragazza appena maggiorenne davvero non è stata apposta la mano santa della clemenza giuridica: due ispettori di polizia hanno scelto che la sua “infanzia difficile” comprometteva la denuncia di violenza sessuale. È falsa testimonianza e quella sì che è perseguibile per legge, non un presunto stupro.

Scordiamoci la spettacolarizzazione del corpo femminile, ogni vittima ha dignità tanto nella vita vera quanto in pellicola. Niente seno, capezzoli, cosce spalancate: la camera è empatica e si fissa sullo sguardo di chi, dopo aver subito una brutalità simile, va spogliato ed esaminato dentro e fuori dal dipartimento della scientifica. C’è poco da farci retorica: utile sì, bello no.
Spazzato via anche l’antagonista intrigante che affascina e stuzzica con la sua moralità grigia. L’aggressore è un uomo sulla quarantina, il taglio militare, la pancetta. Un volto tra i volti, perfettamente irrilevante. Rientrerebbe a pieno diritto nella schiera dei “banali” di Hannah Arendt con la sua apatia e il suo naturale disinteresse verso chi soffertamente depone contro di lui. Il rimorso è un miraggio su cui forse nemmeno si interrogherà nei trecentoventisette anni e mezzo di reclusione a cui dovrà andare in contro.
Addio american dream, benvenuto incubo burocratico. Le due detective che seguono il caso devono nuotare nelle acque scure di file inaccessibili, incompetenza consapevole, carteggi volanti. Tra le centrali di polizia non c’è comunicazione e perseguire uno stupratore seriale che si muove libero nei vari distretti del Colorado diventa un’impresa titanica, tanto più se il colpevole è un soldato che conosce la superficialità del sistema e decide a sua convenienza di sguazzarci dentro. In questo modo viene a meno anche la linearità comoda di un poliziesco qualsiasi, dove le analisi piovono dal cielo in tempo reale e l’archivio è un cesto di uva perennemente fresca da cui selezionare un acino – un profilo personale – a proprio piacimento.

Sempre in quest’ottica il paternalismo e il protezionismo militare non sono “un tema” ma un muro, un ostacolo che non può essere interamente abbattuto da un singolo episodio di resistenza femminile; ancora una volta si tratta di dover scalare con le unghie e con i denti per raggiungere un risultato giusto e dovuto. E in questo senso non c’è nemmeno soddisfazione, ma rassegnazione. Per quanto la vicenda giuridica venga di fatto conclusa, il database inaccessibile dell’imputato, contenente foto di chissà quali e quante altre donne, rimane sigillato, intatto come gli infiniti casi di stupro non denunciati.
Non c’è indignazione. Quest’ultimo ingrediente mancante lo suggerisce nei minuti finali la silenziosa e remissiva Marie, con un discorso – o meglio, monologo perché risposta non c’è – riservato ai due detective che si sono occupati per primi del suo caso con quella leggerezza accusatoria che le ha rovinato l’esistenza. Il retrogusto del dispiacere è lì sulle pareti della gola, ma non è mai processato in un pentimento straziante. Nessuna coscienza si incrina per le proprie mancanze e gli errori non vanno incontro a quel sano ruminare riflessivo che potrebbe portare se non altro ad un’autocritica fertile, più umana che lavorativa.
Per tutto quello che invece è e rappresenta, Unbelievable va guardata: una miniserie densa, che non ha bisogno di colpi di scena per sussistere, che sfregia la negligenza e la faciloneria; non tradisce dunque la doppia accezione del titolo e rimane “incredibile” sotto tutti gli aspetti.
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