
Attraverso la lente – La carriera fotografica di Stanley Kubrick
“By the time I was 21 I had four years of seeing how things worked in the world, I think if I had gone to college I would never have been a director.” stanley kubrick fotografie
― Stanley Kubrick, in un’intervista del 1972
Stanley Kubrick è tra le icone della storia del cinema del secondo Novecento: poliedriche e irreali, le sue opere sono i pilastri dello studio della Settima Arte e forniscono ancora oggi nuovi spunti di interpretazione. Ma prima che Kubrick diventasse Kubrick, al mondo c’era soltanto Stanley, un giovane fotoamatore di New York con un’immensa voglia di raccontare la vita attraverso le immagini: è attraverso la fotografia giornalistica che la sua carriera prende il volo.
Nato nel 1928, fin da piccolo si appassiona alla tecnica fotografica grazie al padre, che al suo tredicesimo compleanno gli regala un dispositivo di marca Graflex, una delle prime macchine utilizzate dai fotogiornalisti dell’epoca (e che al giorno d’oggi definiremmo semplicemente con il nome di reflex). Nello stesso periodo in cui decide di frequentare lezioni serali, manda una serie di proprie fotografie alla rivista bisettimanale Look. La prima di queste e, forse, quella più conosciuta, rappresenta il proprietario di un’edicola, rattristato per la notizia della morte del presidente Roosevelt, come mostrano le prime pagine degli stessi giornali che sta vendendo – simbolo a tutto tondo del lutto di un’intera nazione.

Nel 1946, il giovane Stanley viene assunto definitivamente dalla rivista come fotografo freelance, a soli 17 anni; Kubrick stesso racconterà che trascorreva intere giornate a sviluppare fotografie nella camera oscura personale dell’amico Marvin Traub – o meglio, «realizzarle magicamente su carta fotografica».
Negli anni del secondo dopoguerra, considerati come il periodo d’oro delle riviste fotografiche popolari americane, vengono fondate le due che avranno più successo, Look e Life, entrambe con caratteristiche ben distinte: se Life è più altolocata e include i lavori di fotografi rinomati come Henri Cartier-Bresson e W. Eugene Smith, Look è invece più di accezione proletaria e provinciale e pone il suo focus sui problemi e le difficoltà degli americani dell’epoca, di solito ritratti da fotografi assunti per la loro professionalità più che per la loro ispirazione artistica.
Stuart Pilkington, in occasione della mostra Through the Lens, dedicata proprio all’opera fotografica del regista, sostiene che si potrebbe immaginare che le foto realizzate per Look siano simili alle future pellicole di Kubrick: surreali, simmetriche, piene di onirismo. Al contrario, le foto appaiono invece estremamente realistiche, senza filtri, una perfetta slice of life (letteralmente «una fetta di vita») della New York negli anni ’40. Arthur Lubow sostiene che, data la sua scarsa esperienza, le azioni quotidiane della gente affascinano il giovane Kubrick e lo colpiscono profondamente, spingendolo a ritrarle sempre con qualcosa di nuovo.

Nel suo realismo è tuttavia presente una contraddizione: pur rispecchiando la tradizione di fotografi come Henri Cartier-Bresson o William Klein, che aspettavano per ritrarre il soggetto giusto per strada, in mezzo alla gente, senza alcuna impostazione ma catturando semplicemente la naturalezza del momento, Kubrick imposta le sue fotografie proprio come farà sul set dei propri film, dirigendo i soggetti in modo da fare apparire le loro azioni come più naturali possibile: è il caso, per esempio, di A Short Story From a Movie Balcony, la prima serie pubblicata su Look, nella quale un uomo viene rifiutato dopo aver compiuto delle avances su una donna e riceve uno schiaffo – entrambi i soggetti sono amici del regista e, proprio come degli attori, vengono solo indirizzati a interpretare la propria parte. stanley kubrick fotografie

Suonano più comprensibili, a questo punto, le parole di Pilkington, che descrive le fotografie come manifestazione di una «illusion of candidness», ovvero un’illusione di candore e franchezza che fa apparire le immagini genuine ma allo stesso tempo impostate e finemente strutturate. Tutto l’impegno nella costruzione delle immagini riporta quindi alla tecnica con cui il regista dirigerà i suoi capolavori, sfiorando i limiti dell’ossessione per raggiungere la perfezione assoluta – ne è un esempio il famoso aneddoto che vede Tom Cruise, sul set di Eyes Wide Shut, ripetere una scena in cui entra semplicemente da una porta per 93 ciak.

Molte delle serie realizzate da Kubrick possiedono tematiche comuni, come quelle con protagonisti i shoe-shine (quelli che Roberto Rossellini chiamerebbe sciuscià, i ragazzini che per guadagnarsi da vivere lucidavano le scarpe ai passanti che se lo potevano permettere) oppure le serie che ritraggono famose soubrettes dietro le quinte, intente a prepararsi, a leggere un libro o a infilarsi le scarpe – si vedono personalità del calibro di Betsy von Furstenberg, Rosemary Williams, Faye Emerson e così via.
Alle persone in metropolitana o in generale sui mezzi pubblici Kubrick dedica un’altra delle sue serie, con una particolare predilezione per la gente addormentata, simbolo di un’era di crisi e di stanchezza generale dopo gli eventi che hanno sconvolto il paese. Proprio perché molte delle immagini hanno il principale intento di raccontare una storia, spesso sembra che esse ricordino delle scene da un film, piuttosto che dare un messaggio di spontaneità. È ciò che potrebbe suscitare il ritratto di questa coppia in un vagone della metro – chi sono? Amanti, parenti? Fratelli o amici? Che ora può essere? Dove sono diretti? Sembrano sfiniti, cosa li potrebbe attendere alla fine della loro corsa? Si sveglieranno mai, o si ritroveranno al capolinea senza essersene nemmeno accorti?

Interessanti sono inoltre le fotografie dedicate ai pugili – in particolare, Walter Cartier, che ha seguito per diversi eventi sul ring e al quale dedicherà il suo primo esperimento dietro la macchina da presa, il cortometraggio Day Of the Fight (1951): l’uso del bianco e nero, accentuato dalla luce e dagli effetti d’ombra che ricordano sia i film della corrente espressionista, sia le pellicole sui grandi boxeur, come sarà per Toro Scatenato (Raging Bull, Martin Scorsese, 1980), e le linee di fuga create dalle corde del ring e dalle gambe del lottatore, parallele alle due figure dell’allenatore e dell’arbitro che lo sovrastano e quasi lo imprigionano, dividono l’immagine in un’immensa griglia, creando drammaticità in ogni sua sezione. Non a caso, poco tempo dopo, quest’immagine rispecchierà un frame del successivo lungometraggio Il bacio dell’assassino (1955).
L’uso della luce e il focus su un soggetto illuminato nel bel mezzo di uno spazio completamente buio fanno da padrone – questa è solo una delle tante ossessioni del futuro regista, che riporta fedelmente ne Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964); per questo film, Kubrick assumerà come fotografo di scena Weegee (alias Arthur Fellig), che già si era fatto conoscere come street photographer, nella sua documentazione di risse, incidenti, incontri di contrabbando e con assassini nella New York della Grande Depressione. stanley kubrick fotografie

La composizione della fotografia è quindi sempre al centro e, pure minuziosa e articolata nei minimi dettagli, in realtà è costituita da regole base della teoria fotografica: rigorosamente in bianco e nero, con vaghi rimandi alle pellicole classiche, le foto comprendono sia l’uso della luce naturale in maniera tradizionale o, in alternativa, della luce artificiale attraverso l’uso del flash in ambientazioni notturne. I soggetti (prevalentemente umani, di solito appartenenti a classi sociali medio-basse) vengono impostati secondo la comunissima regola dei terzi, che prevede la divisione dell’inquadratura dell’immagine in tre parti, sia in orizzontale che in verticale, e la sistemazione di uno o più soggetti-fulcro in uno dei punti di intersezione delle linee immaginarie di divisione – tecnica utilizzata dai tempi della pittura.
È un esempio che si può notare in quest’ulteriore immagine: anche nel bel mezzo del caos che regna su un mezzo pubblico di New York, la signora in primo piano sulla destra si trova esattamente su una delle linee immaginarie che determina la divisione in terzi, donando quindi armonia e simmetria in un’immagine che può risultare confusa e affollata – l’ennesima contraddizione interna, elemento ormai ricorrente nella visione del mondo del regista, sia in fotografia che nel cinema. stanley kubrick fotografie

Si può dire quindi che la poetica di Kubrick fotografo rappresenta la sottile linea tra la riproduzione della realtà nel modo più fedele possibile e la voglia di raccontare delle storie: si sa che ogni fotografia ha sempre un intento, che sia quello di pura facsimile della realtà asettica e oggettiva, passando per un significato surreale o metaforico fino ad arrivare alla vera e propria narrazione, per suscitare riflessioni nell’osservatore.
Già dagli albori, Kubrick vuole comunicare dei precisi messaggi allo spettatore, mostrando la vita di tutti i giorni che spesso passa sotto tutti i nostri nasi, concentrandosi su dettagli di vita quotidiana che il più delle volte vengono dati per scontati. È la più vivida testimonianza della concezione del mondo da parte di un regista realista e visionario, onirico e naturalista, che riporta contraddizioni su contraddizioni, il cui impatto, così automatico e inspiegabile allo stesso tempo, risuona ancora oggi. stanley kubrick fotografie
Bibliografia essenziale
- Luc Sante, Sean Corcoran, Donald Albrecht, Stanley Kubrick photographs: Through a different lens, ed. Taschen, 2018;
- Christiane Kubrick, Stanley Kubrick: una vita per immagini, traduzione di Lorenzo Codelli, Milano, ed. Rizzoli libri illustrati, 2003;
- Philippe D. Mather, Stanley Kubrick at Look Magazine: Authorship and Genre in Photojournalism and Film, ed. Intellect Books, 2013;
- Carlo Maria Rabai, Il regista Stanley Kubrick fu un fotografo eccezionale, in «youmanist», articolo del 2 settembre 2020.
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