
Crisi, crisi e ancora crisi… A-MEN di Walter Leonardi
Improvvisamente dal sipario emerge un uomo che, procedendo per apparente o reale improvvisazione, richiama il pubblico in sala all’attenzione, portandolo a fissare lo sguardo sulla scena. Walter Leonardi, attore protagonista di questo monologo andato in scena al Teatro Fontana dal 9 al 12 luglio, ci avvisa che egli andrà a impersonare un uomo rimasto chiuso in casa per tre anni.
Questo uomo è nel bel mezzo di una crisi, una crisi totale, una conflagrazione, un incendio in cui tutto è vittima delle fiamme, un processo di annichilimento che investe tutta la persona in scena. E il titolo è chiarissimo: A-MEN, ossia la negazione dell’uomo (alfa privativo davanti l’anglicismo) in una parola; una lettura univerbata rimanda alla ben nota formula liturgica e centrale è il tema della ricerca di spiritualità; inoltre, per parafonia non possiamo non pensare alla sigla X-Men, come se l’essere umano in scena conservi un traccia, l’ombra di una qualche superiorità effimera.

L’uomo in scena è un entità duplice poiché da un lato c’è Walter Leonardi comico che ragiona e manda avanti lo spettacolo secondo la logica della stand-up comedy, dall’altro un essere che è rimasto nel suo guscio per tre anni e si mostra a noi, vivendo dell’azione teatrale. Una cosa è certa: l’essere in scena è di sesso maschile, particolare non irrilevante. La crisi totale e totalizzante che Walter denuncia è quella prodotta dai padri sui loro figli che sono poi padri di figli che saranno padri. Una crisi del capo famiglia, del uomo forte, del maschio che compie il parricidio di freudiana memoria in compagnia nientemeno che del padre medesimo.
Un percorso di ricerca viene abbozzato, ma fallisce sistematicamente. Si cerca una spiritualità, un senso profondo delle cose nella religione, ora quella cristiana, ora quella islamica, ora altro; si cerca l’amore, quello che porti in sé la genuina semplicità del primo amore; si cerca, non si trova, e ci si rivolge alla luna, globo luminoso verso cui poeti e non hanno indirizzato il loro malessere. E la luna, complice forse il peso di tanto lamento, crolla, generando il panico totale di un ancor più disperato uomo.
Nella ricerca di un nuovo equilibro, volto quantomeno a risanare il disastro, vestendosi di pelli, Walter Leonardi diventa sciamano di un rito collettivo che coinvolge direttamente il pubblico in sala. Mensa dell’altare è un’asse da stiro. É la vittima sacrificale è l’oggetto dell’eterna connessione, un tablet di ultima generazione. Ed il dio a cui si rivolge la preghiera è Steve Jobs (il tablet è di marca Apple). Un rito postmoderno, un rito nuovo.

La scena, un insieme ordinato di oggetti, si rivela un luogo dove ogni cosa va mutando e acquisendo valore in rapporto all’evolversi del racconto, con evidenti colpi di scena e soluzioni mirabolanti: donne personificate da copridivano, ruote di biciclette sospese a mezz’aria, un mobile che si rivela essere un girello per un affondo sull’anziano futuro.
Ha senso questa fatica se poi un uomo, quando è in linea con se stesso, è felice pure sul cuscino del suo divano? Le luci si spengono e vediamo Walter Leonardi dentro un’enorme cuscino gonfiabile, quasi una metafora del grembo materno, una nuova nascita, una ri-nascita. Sarà felice? Sarà sereno? Ha superato la sua crisi? L’attore, venuto fuori dal cuscino, si prende l’applauso del suo pubblico, siglando così la fine della pièce.
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