
Operazione fisiologica – “La grande abbuffata” di Michele Sinisi
Fischiata pellicola del Festival di Cannes, La grande abbuffata, il film di Marco Ferreri, diviene soggetto dell’azione drammaturgica curata da Francesco Maria Asselta e Michele Sinisi, debuttato al Teatro Fontana e poi in scena a Prato al Teatro Metastasio fino al 20 giugno.
Una sovraffollata scena diviene teatro dove si consuma l’insana decisione di quattro uomini (interpretati da Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’Addario, Donato Paternoster) di rinunciare alla vita, ossia di riproporre quanto l’omonimo film ha già raccontato. Tuttavia, se il nucleo tematico è il medesimo, l’operazione artistica messa in atto a teatro si configura come qualcosa di molto più di un semplice amarcord, di un omaggio a Ferreri. La drammaturgia di Sinisi e Asselta vive come opera assolutamente autonoma, cosciente di essere tale, con buona pace dei ben pensanti che in sala sussurrano: «Meglio il film».
L’autonomia dell’opera è già nell’allestimento assai complesso della scena, che vive di continui mutamenti, di continue rifunzionalizzazioni: la mensa dove i quattro convitati siedono è un tavolo (facile il legame vita e morte) dove ora si mangia ora si consuma l’amore ora si muore, oppure quello che aveva l’aria di essere un armadio a tre ante si rivela una sequenza di bagni pubblici allineati, da cui usciranno le prostitute che intratterranno i quattro amici.
La vicenda in scena non è solo raconto di un dramma. È un racconto che dialoga con il pubblico in sala, dialogo determinato dai continui abbattimenti della quarta parete che si realizzano in facili motti di spirito, in perorazioni circa i mali del tempo presente o il ruolo del teatro (tema chiave delle pièce) o altro, fino ad arrivare ai più complessi meccanismi performativi realizzati pienamente dal personaggio della maestra, interpretato da Adele Tirante: canto, canto lirico, ballo ed un entrata in scena direttamente dalla platea solo per ricordare i fatti più eloquenti.

Se lo spettacolo si configura come qualcosa di autonomo non manca di pagare il suo debito all’opera di Ferreri nel momento in cui proietta alcuni segmenti del film su di uno schermo, fatto a metà tra l’omaggio e la ricerca di autonomia. Quello dello proiezione non è che uno dei linguaggi adottati: danza, canto, musica, fino ad arrivare al più vistoso effetto scenico (il gabinetto al centro sul fondo della scena esplode rilasciando nuvoloni di un materiale non meglio definito) in un complesso e chiarissimo meccanismo di elaborazione e produzione di testi, un assaggio e consumo di tutto quello che si può sperimentare.
Lo spettatore mangia con i commensali, diviene affetto da una bulimia di comunicazione, è sottoposto ad un’enorme quantità di informazioni che, per così dire, si concretizzano in un abbagliante flash prodotto da lampadine disposte a formare l’icona del Mi Piace. Tutto diviene accecante, tutto viene accecato in un gioco autodistruttivo. E questa bulimia si compone anche di rimandi al presente, per cui con mascherine chirurgiche i personaggi entrano in scena, oppure parlano del lockdown, dei Dpcm, della fame d’aria negli ospedali.

Lo pièce riesce splendidamente a far propria e a rileggere la volontà di Ferreri di produrre un’opera fisiologica, con al centro elementari istinti, dettati non da una reale necessità, ma da un’ottusa e cieca fame di ogni cosa che determina nei protagonisti un sentimento che chiamare tedium vitae è forse troppo nobilitante. L’effetto finale che colpisce lo spettatore è quasi un senso di nausea amplificato del verso prodotto dall’ultimo dei commensali in vita, mentre si abbuffa fino alla morte. Di fronte a questo eccesso, il ritorno alla realtà, la fine del dramma, si realizza non con un calo del sipario, meccanismo forse troppo classico per una vicenda così conflagrante, ma con un oscurarsi delle luci che hanno illuminato la messa in scena dei drammi dell’uomo occidentale moderno.
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