
Il filo di mezzogiorno – Il teatro della mente di Mario Martone
Il filo di Mezzogiorno, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino a stasera, è uno strano fenomeno teatrale che si configura più come un incontro che come un semplice spettacolo: la congiunzione artistica tra l’universo teatrale dalle tinte cinematografiche di Mario Martone e l’orbita delicata e potente del mondo di Goliarda Sapienza (1924-1996) dà voce e corpo ad una storia tutta interiore, che diviene, sul palco, canto di libertà universale.
Donna fuori da tutti gli schemi e anche dalle ideologie politiche del suo tempo, Goliarda Sapienza fu prima partigiana, poi femminista, sempre controcorrente e contro il conformismo, lottando prima di tutto attraverso la sua scrittura.

Riadattato per il teatro da Ippolita di Majo, il romanzo autobiografico Il filo di mezzogiorno (1969) è un corpo a corpo con i propri ricordi: Goliarda Sapienza, dopo un periodo di depressione sfociato in un tentativo di suicidio, venne ricoverata in una clinica psichiatrica dove fu sottoposta a numerosi elettroshock; portata via di forza grazie all’intervento del suo compagno, Citto Maselli, si ritrova a casa sua senza riconoscerla, non ricorda più nulla di sé né di ciò che la circonda.
Il racconto si snoda seguendo il filo delle sedute come una sorta di presa diretta del percorso terapeutico che ha guidato Goliarda dalle tenebre della mente alla luce della coscienza e al recupero della propria identità. Con straordinaria dovizia di particolari la scrittrice insegue schegge della memoria, le sensazioni che riportano ad affiorare stralci di vita vissuta e pensata, l’intrecciarsi doloroso e struggente delle dimensioni temporali passate. Ad accompagnarla c’è uno psicanalista, “un dottore dei pazzi”: va lì tutti i giorni alla stessa ora, mezzogiorno.

Mario Martone e i magnifici interpreti de Il filo di mezzogiorno, Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco, ci guidano nel labirinto della mente di Goliarda Sapienza attraverso una drammaturgia fluida e struggente, lirica e allo stesso tempo lucidissima, analitica.
I piani del racconto sono molteplici e si intersecano continuamente, creando un rompicapo di coordinate spaziali e temporali che rendono presenti e vivi sulla scena gli invisibili passaggi repentini della mente e dell’inconscio: l’infanzia in Sicilia, l’arrivo al continente e l’esame all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, il fascismo, la prigione, la scrittura affiorano in un diorama narrativo che somiglia al cinema, più che al teatro.
Ne Il filo di mezzogiorno tutto questo accade nel presente continuo del mondo interno di Goliarda: il luogo dell’azione è il tempo dell’analisi, intessuto di regressione, rievocazioni, proiezioni, transfert, dove i vivi e i morti si incontrano di nuovo, mentre i fantasmi dei desideri indicibili e l’eco delle emozioni segrete si rincorrono nell’unico luogo in cui è possibile accarezzare le ferite dei sogni.

Tirando delicatamente un filo per districare la matassa dei ricordi avvinghiati nella mente violentata di Goliarda, tra la donna e il Dottore emerge pian piano la forza incandescente di una relazione salvifica e distruttrice al tempo stesso, che da terapia si fa impetuoso contagio psichico.
Avviene così un ribaltamento di ruolo, e lo psicoanalista, tanto solido nella parola quanto fragile nel cuore, si ritrova accartocciato dalla forza tellurica di Goliarda. Da questo scontro violento tra la ragione scientifica macchiata di paternalismo e il desiderio di libertà di una donna ferita che è riuscita a ricostruirsi, il Dottore fugge da paziente bisognoso e smarrito mentre Goliarda esce sanguinante ma di nuovo padrona della sua disperata vitalità. E curata, sì, ma dalla scrittura.

Sorprendentemente complesse e indiscutibilmente protagoniste, poi, sono le scelte scenografiche de Il filo di mezzogiorno. L’azione prende vita in due diverse zone del palcoscenico, diviso in due stanze uguali e speculari, che rappresentano la doppia dimensione in cui è frammentata la mente di Goliarda. Una, quella della ragione, del contatto con la realtà, dove si muove il dottore; l’altra, quella dell’inconscio e del subbuglio dei ricordi, in cui è immersa Goliarda. Ma, quando un contatto sincero si crea tra lo psicanalista e la donna, che pian piano si lascia scoprire anche nella sua più recondita profondità psichica, la parete che divide i due mondi si frantuma come un vetro sottile.
Durante la messinscena le due scatole sceniche, indipendenti l’una dall’altra anche nelle possibilità di movimento sugli assi verticale e orizzontale, divengono di volta in volta rappresentazione di una particolare declinazione della mente di Goliarda – spazi vuoti, bui, onirici, solitari e sprofondati, o stanze soleggiate in cui il sole di mezzogiorno filtra dalle veneziane – che diventa, così, un teatro. Di cui Mario Martone si fa regista ed esploratore.

E solo alla fine Goliarda, che per anni si è dovuta sforzare di “aprire la mascella” per pronunciare le parole senza accento, riesce ad uscire dalla scatola scenica che l’ha tenuta per imprigionata in un presente continuo, riconoscendosi in sè stessa, nelle sue debolezze e nella sua forza. Aggirandosi in una scena vuota, infine, torna ad essere protagonista della sua vita vera, finalmente libera da ogni stigma e da ogni paura:
“Non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate non la catalogate per vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate – non lo dite forte, la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto”

Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista