
Hong Kong Express – Stile, amore e Wong Kar-wai
Non il solito film d’amore.
A un certo punto, non ben precisato, dei primi anni ’90, Wong Kar-wai si accorge di essere molto stanco. L’infinita e logorante post-produzione di Ashes Of Time (1994), incursione d’autore nel genere wuxia, che sarebbe l’equivalente cinese del nostro “cappa e spada”, semina briciole di dubbio ma anche una buona idea. Ansioso di misurarsi con una sfida di tipo differente, un film più leggero, contemporaneo, Wong fa inversione a u. Qualcosa di meno di un ripensamento, qualcosa di più di un’operazione cosmetica.
Hong Kong Express debutta nell’estate del 1994 e piace molto in patria, da subito. Al culmine del successo viene ospitato da 20 sale contemporaneamente e fa incetta di premi locali. In America arriverà con qualche mese di ritardo, il patrocinio di Quentin Tarantino e un’accoglienza critica positiva, con qualche riserva. I successivi 27 anni hanno fatto pulizia dei fraintendimenti. Oggi Hong Kong Express vale come cult nobile. Mix di sensibilità di genere e approccio d’autore, una colonna sonora che raccoglie il meglio del pop di due o tre decenni, sensualità frenetica nelle immagini di Christopher Doyle e l’irresistibile seduzione dei suoi protagonisti. Vale la pena di approfittare del ritorno nelle sale italiane del film, un’iniziativa Tucker Film che coinvolge una buona parte della filmografia di Wong Kar-wai, per raccontare qualcosa di interessante su un film che sceglie di raccontare l’amore al cinema come nessun altro.
L’amore al contrario

L’anomalia è servita, curiosità in tre parti. Film d’amore “senza” amore. Racconto sentimentale, e insieme riscrittura del linguaggio amoroso. Rovesciamento dei tempi della narrazione; l’inizio che esplora la fine di qualcosa. La conclusione che fotografa una partenza. Come se le cose non fossero già abbastanza (piacevolmente) complicate, Hong Kong Express litiga con il presente. Wong Kar-wai fa dell’amore compiuto il fumo di un ricordo, o un progetto per il futuro.
I corpi si sfiorano, ma solo per un momento. Lo spazio può essere condiviso, mai contemporaneamente. La memoria è più tangibile del qui e ora; la realtà, un’allucinazione. Il film corre lungo i binari di uno stato di perenne dormiveglia, oscillazione tra sogno e verità. E in questo modo riesce a rendere tangibile il bisogno, il desiderio, il senso dei protagonisti per l’amore, riservandosi possibilità che un lavoro più convenzionale non avrebbe saputo immaginare. Evitando di assegnare una forma compiuta al sentimento, Hong Kong Express “costringe” lo spettatore a riempire gli spazi bianchi della narrazione. Colorando, con la forza della propria esperienza, ciò che il film lascia volutamente ambiguo e non scoperto. Il cinema è un’arte allusiva, predilige l’evocazione alla brutale esposizione. Prima di conoscere bene l’amore, Wong Kar-wai sa cos’è il cinema.
La struttura complessa, il messaggio politico

Più di una voce critica ha colto, nel malinconico accenno del film alla caducità del sentimento, un riflesso d’inquietudine proiettato sul futuro di Hong Kong. La lettura non è peregrina. Ci sono momenti in cui l’avvenire sembra sfiorare il presente con forza particolare. Se ogni cosa ha la sua data di scadenza, vale per l’amore, vale anche per la libertà? Alla metà del decennio, tre anni separano la città e i suoi abitanti dal temuto “ricongiungimento” con la Repubblica Popolare Cinese. Arriverà il 1997, e si porterà dietro il fantasma di una regressione autoritaria che proprio in questi tempi confusi trova il modo di realizzarsi. Molte cose finiscono alla metà degli anni ’90. Questa forza profetica, e il sottotesto politico che la accompagna, spiegano bene la natura stratificata di Hong Kong Express. La complessità parte dalla struttura.
Wong concepisce il film come una galleria di episodi, immagina una struttura tripartita ma conserva soltanto due frammenti. Il terzo viene scartato per non correre il rischio di appesantire troppo le cose. Ne verrà fuori un film a parte, Angeli Perduti, che uscirà nel 1995. Hong Kong Express verrà girato con una sceneggiatura parziale completata in corso d’opera, non è una novità. Il primo episodio guarda al genere, sorta di poliziesco. Il secondo, l’unico lampo di convenzionalità in una confezione per il resto spiazzante, pura commedia romantica.
Brigitte & Takeshi & Tony & Faye

Struttura in due parti, da non prendere troppo sul serio. Wong Kar-wai si diverte a mescolare le carte e scavare gallerie sotterranee per far comunicare i due frammenti. Volti e luoghi che si intrecciano; i turbamenti d’amore dell’agente di polizia 223 (Takeshi Kineshiro), mollato dalla ragazza, May, il primo aprile. Consuma scatolette di ananas con data di scadenza al primo maggio (may in inglese), perché quello è il giorno oltre il quale non metterà più alla prova il suo amore che finisce. La notte fatidica la trascorrerà in compagnia di una donna misteriosa (Brigitte Lin). Impermeabile e occhiali da sole, una vistosa parrucca bionda, ha tempo fino a, lo avrete capito, per ritrovare una partita di droga scomparsa, o saranno guai. Insieme condivideranno un letto, lei addormentata, lui che mangia fino all’inverosimile. Non sarà amore, ma elaborato il lutto, un pugno di memorie comuni, e verrà il tempo di guardare avanti.
Poi c’è Faye (Faye Wong). Seconda parte. Lavora in uno snack bar e si strugge di desiderio per l’agente 663 (Tony Leung Chiu-Wai), che in un colpo solo perde l’amore e l’hostess della sua vita. Un sorprendente gioco di circostanze porta nelle mani di Faye le chiavi dell’appartamento dello sbadatissimo agente. Con pazienza e devozione la ragazza rimette in piedi, un peluche alla volta, la casa e la vita dell’uomo. Scoperta nella sua bizzarramente poetica prova d’amore, Faye mescola le carte e costringe l’uomo dei suoi sogni a reinventare l’amore che nasce, con esiti imprevedibili. Questa l’impossibile sinossi, ma c’è dell’altro.
L’amore, la perdita, la memoria, il cambiamento. Hong Kong Express è cronaca sui generis delle cose e dei luoghi che contribuscono a scrivere la storia delle persone. E dei sentimenti. Mai un appartamento ha pianto in maniera tanto convincente.
Chungking Mansions, Christopher Doyle, California Dreamin’

Di giungla si parla, e a ragione, nel titolo originale del film, per dar conto della natura reticolare e frenetica della vita in città. In traduzione, qualcosa si è perso. Capire l’ambiente significa capire il film. Vale la pena a tal proposito di citare uno, fra i tanti, dei luoghi chiave nella geografia di Hong Kong Express. Che non sarebbe tale senza le famigerate Chungking Mansions.
Nelle intenzioni originali un complesso residenziale, in realtà un gigantesco alveare fornito di hotel, negozi e servizi di vario genere; attraversato giornalmente da un esercito di turisti, lavoratori, locali e immigrati. Wong Kar-wai si immerge nel cuore pulsante di Hong Kong per disegnare l’impronta di un calderone cosmopolita. Corpi in movimento, oggetti che parlano, la vitalità frenetica di un mondo brulicante di passione. L’amore va, l’amore viene, trasformazione continua. La sensualità dei corpi e delle cose è modellata dal calore frenetico della macchina da presa di Christopher Doyle. Il braccio stilistico di Wong mixa velocità e controllo formale nella definizione (curatissima) dell’immagine del film.
Ciò che resta oggi, soprattutto, di Hong Kong Express – meriterebbe spazio ulteriore un pensierino sulla chimica della coppia Leung-Wong – è la potenza espressiva della sua colonna sonora. Universi musicali in rotta di collisione. Dalla morbidezza jazz di Dinah Washington, nell’interpretazione giustamente passata alla storia di un classicone come What a Diff’rence a Day Made, a California Dreamin dei The Mamas & the Papas. Usata e abusata con cadenza ossessiva dal film e cristallizzata nella sua natura di inno nazionale di cuori affamati. Oltre alla popolarissima, da quelle parti, cover in lingua cantonese di un celebre pezzo dei The Cranberries, Dreams. La voce è di Faye Wong, che in patria è anche apprezzatissima cantante, un’eterea dichiarazione di intenti sul rapporto tra vita amore e immaginazione. Hong Kong Express ha scelto da che parte stare.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista