
“Anne” – Un abbraccio che ricuce il tempo | Intervista a Stefano Malchiodi
Regista, sceneggiatore, montatore del cortometraggio Anne, vincitore del David di Donatello 2021 nella rispettiva categoria, Stefano Malchiodi, nato a Seriate e cresciuto a Martinengo in provincia di Bergamo, ci ha generosamente raccontato il suo percorso artistico, le origini della passione per il cinema (o, meglio, per il racconto con le immagini), gli studi, le curiosità e le stranezze di un lavoro come quello del cineasta. Un racconto, il suo, che muove dalla passione relativamente recente per il montaggio e arriva a conciliarsi con l’incontenibile gusto del narrare che lo accompagna fin da bambino, in un “abbraccio del tempo” che sembra trovare il suo parallelismo esemplare nel finale del film che meritatamente, quanto inaspettatamente, lo ha visto vincitore insieme al collega regista Domenico Croce – click qui per tutte le info su Anne (2019, Italia).

Innanzitutto, sincere congratulazioni a te e a tutti i colleghi della troupe per il risultato ottenuto ai David di Donatello l’11 maggio scorso. Per iniziare la nostra chiacchierata vuoi raccontarci da dove parte e come si è sviluppato un po’ tutto il tuo percorso personale e come sono nate le varie collaborazioni che hanno portato alla realizzazione di Anne?
Grazie a nome di tutti, è stato davvero un risultato tanto inaspettato quanto gratificante, anche perché non siamo partiti con l’idea di realizzare qualcosa appositamente per un grande festival. Di certo è vero che tutto questo nasce da una grande passione collettiva. Per quel che riguarda la mia passione, posso dire che ho sempre avuto un interesse per il racconto fin da quando ero piccolo ed ero anche molto appassionato di scrittura. Dopo il diploma scientifico, ho completato il triennio in “Produzione cinematografica e televisiva” presso la Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti nel 2014. In quegli anni, pur imparando tanto, non sapevo ancora bene quale strada intraprendere e, soprattutto, sentivo che quella della produzione non era la mia. Sempre in quegli anni, insieme a un gruppo di amici, ho cominciato dei piccoli lavori audiovisivi – cortometraggi, spot, video di eventi – ed è lì che ho iniziato veramente a prendere confidenza con la pratica del montaggio, per me molto più interessante rispetto all’organizzazione produttiva dei lavori. A quel punto ho deciso di provare l’iscrizione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, nel corso di montaggio. La selezione è stata molto dura, ma è andata bene. Oltre a perfezionare la dimestichezza con i vari programmi, quella è stata l’occasione per stringere stretti rapporti sia con gli insegnanti che con i compagni degli altri corsi, lavorando assieme su molti progetti scritti, girati e postprodotti autonomamente sotto la guida di alcuni tutor. In media ognuno di noi ha lavorato su 5/6 cortometraggi nell’arco di tre anni. In più, quelli del corso di montaggio hanno avuto anche la possibilità di creare dei piccoli cortometraggi realizzati in piena autonomia, sulla base di archivi video con immagini storiche di repertorio. Questo per dire che ci sono state alcune tappe fondamentali prima di arrivare alla scrittura e realizzazione di Anne insieme a Domenico e ai ragazzi della troupe – tutti, appunto, ex compagni di scuola al Centro Sperimentale. Prima di arrivare a questo momento, però, ho terminato gli studi allo Sperimentale nel 2017 e ho iniziato a lavorare come montatore e assistente al montaggio in serie TV, documentari, film e cortometraggi di diverso tipo e parallelamente ho portato avanti altri piccoli progetti personali di scrittura, regia e montaggio.
Il David è stato solo l’ultimo di alcuni premi che Anne aveva già ricevuto, sbaglio?
Esatto. La trafila dei festival è stata intensa e soddisfacente. Nei mesi dopo che il corto ha visto la luce (estate 2019) abbiamo partecipato al Giffoni Film Festival nella sezione “Parental Experience”, nell’autunno del 2019 al Wag Film Festival e nel Marzo 2020 al Cortinametraggio, vincendo sia il premio “Miglior Corto” che i premi “Corto più Web” – offerto dalla RAI, che premiava il vincitore con la possibilità di essere implementato su Rai Play – e il “premio ANEC-FICE” degli esercenti delle sale cinematografiche, grazie al quale, con la riapertura dei cinema, andremo in proiezione in circa 450 sale, prima dei film in cartello.
Per finire la vittoria ai David, dove, ironia della sorte, ci siamo iscritti pochi giorni prima della chiusura senza pensare di poterne uscire vincitori. Ovviamente la più grande soddisfazione è per tutte le persone che hanno contribuito con impegno gratuito ed entusiasmo incessante alla realizzazione di questo film. Forse ora potranno avere in cambio un poco del tanto che hanno dato generosamente.
Da quello che racconti si capisce bene come, proprio negli anni degli studi, tu abbia maturato una solida preparazione tecnica, un’esperienza non indifferente e un grande affiatamento con i colleghi, tutti aspetti indispensabili del “fare cinema” di cui spesso non si parla quando si fa critica, talvolta per fare spazio a filosofemi inconcludenti sulla singola opera. Prima di ritornare ad Anne, la domanda di rito: quali sono i riferimenti cinematografici che hanno accompagnato queste esperienze e per quale motivo lo sono?
In generale, al di là delle ovvietà che possiamo dire sui grandi maestri del passato – che come tutti i grandi sono sempre un po’ intoccabili e forse è persino difficile imparare qualcosa da personalità tanto enormi da un punto di vista artistico/culturale, penso a Fellini, a Tarkovskij, Orson Wells, Kurosawa, Kubrick – dicevo, in generale sono attratto da un tipo di cinema che possiamo dire “sperimentale”, o che comunque è interessato a spingere il discorso sulla teoria cinematografica e sul linguaggio verso terreni inesplorati o non convenzionali. Alcuni nomi che possono rendere l’idea: Chris Marker, Gaspar Noè, Jonas Mekas, Werner Herzog, Abdellatif Kechiche, Franco Piavoli per dirne alcuni. Credo che il minimo comune denominatore di questi autori sia l’impossibilità di accontentarsi di una narrazione che si basi su stilemi già consolidati, con il rischio che questo approccio possa ovviamente anche portare a film non riuscitissimi, ma non per questo meno interessanti. Credo sia davvero fondamentale il lavoro di “ricerca” nel cinema. Ciò non vuol dire essere o cercare di essere per forza “originali”, anche perché è una parola che di per sé ha poco senso; ma è fondamentale ricercare, per arrivare a una forma di sincerità che travalichi la forma estetica: il cinema è comunicazione e come tale deve arrivare nel modo più diretto possibile allo spettatore. Per questo anche la forma estetica deve essere sempre a supporto dei contenuti, e mai un virtuosismo sterile che, per quanto mi riguarda, annoia immediatamente. Altri registi di riferimento più “classici”, tra modelli e semplici legami emotivi, sono Richard Linklater, Roman Polanski, Sergio Leone, Terrence Malick, Alfred Hitchcock, Elem Klimov, ma ovviamente la lista completa sarebbe difficile da stilare e molto più lunga.
Quando ha iniziato a prendere forma l’interesse per questi autori e per la comunicazione attraverso le immagini? In parte la domanda è simile alle precedenti, ma sarebbe bello approfondire questo aspetto alla luce del lavoro fatto in Anne che – lo anticipiamo per chi non lo avesse ancora visto – integra l’animazione al rotoscopio e ai materiali documentari di repertorio.
Come anticipato prima, se da una parte l’interesse per il racconto sotto forma di scrittura c’è sempre stato, dall’altra è negli anni dell’adolescenza che mi sono potuto avvicinare da autodidatta al montaggio vero e proprio, grazie all’esplosione dei programmi per montare dal computer (stiamo parlando degli anni tra 2005 e 2010 per capirci). È così che mi sono legato, di conseguenza, al racconto audiovisivo. Sottolineo questo aspetto perché, a differenza di altri, la mia passione per questo tipo di racconto non è strettamente legata a una cinefilia. Sono curioso e interessato a tanti aspetti dell’arte e della letteratura, ma non mi definisco, né sono, un cinefilo. Se dovessi scegliere solo una cosa da portare sempre con me sceglierei un libro piuttosto che un film. Ciò non toglie che anche per me il racconto filmico abbia una forza talmente intensa e immersiva, per via della multisensorialità di stimoli che offre al nostro cervello, da essere sicuramente quello l’aspetto che più mi interessa studiare e approfondire. Poi c’è anche il lato tecnico e sinergico che mi piace molto nel fare cinema, come abbiamo detto prima. Il confronto con tanti ragazzi e insegnanti stimolanti mi ha permesso di crescere moltissimo sotto ogni aspetto del fare cinema, o del fare racconto. Per quanto riguarda il lavoro fatto con i materiali documentari in Anne posso dire di aver beneficiato dell’esperienza fatta realizzando tre cortometraggi, alcuni più riusciti altri meno, che utilizzavano immagini di repertorio.

Nonostante la competenza sviluppata nel campo del “found footage”, quanto è stato impegnativo un progetto articolato e composito (anche a livello teorico) come Anne? Si tratta di un corto di 16 minuti, ma l’impressione è che a livello di scrittura, animazione e montaggio la gestazione sia durata parecchio…
Anne, data la sua particolare forma, ha ovviamente avuto dei tempi di realizzazione particolarmente lunghi. La prima stesura della sceneggiatura risale addirittura all’autunno 2017, abbozzata assieme allo sceneggiatore Lorenzo Bagnatori per partecipare al bando per il “Premio Zavattini”, che offre sostegno economico e produttivo a lavori volti al riutilizzo artistico di immagini del loro grande archivio. La cosa ironica è che la sceneggiatura non fu selezionata e così iniziai a chiedermi come potessimo realizzarla indipendentemente, perché l’idea ci sembrava valida. Feci leggere la sceneggiatura ai miei insegnanti e alla preside della scuola, al tempo Caterina D’Amico, a cui piacque tanto da offrirci il sostegno della scuola e un contatto diretto con l’Istituto Luce per i repertori necessari. Le riprese sono state fatte a inizio maggio 2018, in due giorni, negli spazi del Centro Sperimentale. L’organizzazione e la produzione vera e propria invece sono state curate da due società giovani, l’Anemone Film e la 10D Film, entrambe fondate e composte da compagni di scuola del corso di produzione. Tutta la troupe è stata formata da ex compagni dei vari corsi, amici prima che colleghi, che hanno partecipato spontaneamente e senza compensi economici. In poche parole, ci siamo “autoprodotti”, come si suol dire. Siamo poi passati al montaggio e una volta che il montaggio era più o meno completo, dall’autunno 2018 è iniziato il lavoro di rotoscopia.

Come avevamo anticipato, siamo arrivati a parlare della tecnica con cui avete realizzato Anne, che è anche l’aspetto più interessante insieme al soggetto. Questo perché, a mio parere, la tecnica vi ha permesso di integrare perfettamente la forma espressiva al contenuto del cortometraggio. Ci parleresti prima della rotoscopia come tecnica e poi di quanto questo dialogo tra animazione e documento vi abbia permesso di esprimere efficacemente i contenuti della vicenda che raccontate? Se posso azzardare un accostamento, l’operazione di convivenza tra documento e animazione è simile a quella di Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman. C’è per caso qualche legame diretto?
La rotoscopia, ovvero il trattamento pittorico delle immagini, viene realizzato tramite particolari filtri e lavorazioni fotografiche. È stato un lavoro fatto su ogni singolo fotogramma delle riprese girate dal vivo e poi utilizzate nel montaggio finale. Ovviamente questo ha richiesto mesi, dunque è stata completato solo a inizio 2019. In quello stesso periodo sono stati realizzati gli effetti speciali (la ricerca al pc del padre e l’aeroporto della scena finale, che in realtà aveva in background il cortile della scuola) e sono stati implementati tutti i repertori mancanti tramite un archivio americano privato, il “Periscope Film”.
Per quanto riguarda il film di Ari Folman, in realtà non c’è un legame voluto, personalmente lo conosco ma non così a fondo. Piuttosto, posso dire che il centro del nostro lavoro è stato il montaggio, impostato come fondamento di tutto il racconto e anche del lavoro registico. In Anne il montaggio ha una vera e propria funzione registica. Tutto è scritto in funzione del montaggio, sceneggiatura compresa. Ecco perché mi piace parlare di scrittura per immagini. Sul versante dell’animazione, lo sperimentalismo emerso con l’integrazione tra rotoscopia e repertorio è stato più che altro un azzardo che non voleva imitare o seguire qualcosa di già visto. Il punto di partenza, come dicevo, è stato quello della scrittura per un bando in cui le immagini di repertorio erano una prerogativa; nel momento in cui abbiamo potuto produrre in maniera indipendente abbiamo pensato di associare quel repertorio a una visione delle cose in chiave surreale, facendo cozzare il fantastico dell’animazione con la concretezza del documento. Il documento, così, diventa testimone dell’assurdità della storia che si racconta proprio grazie all’iperrealismo dell’immagine che offre, mentre l’animazione testimonia l’autenticità di quello che si racconta. Per sfruttare al meglio questo paradosso si aumenta lo scarto tra animazione e documento, creando così questo dialogo tra le parti in cui la verità sta in mezzo. L’animazione, anche grazie a quella patina graffiante che viene utilizzata, è come se completasse i buchi di una memoria documentata tramite i filmati storici, che tuttavia necessitano di una ricostruzione fantastica e surreale per dire qualcosa di vero. Ecco come implementare il racconto di un bambino che sogna ricordi di una vita precedente rendendo visivamente quei sogni nella forma del documento storico.
Prendendo in prestito alcune riflessioni di teorici del cinema, tra cui Pietro Montani, sintetizzerei questa operazione come una “autenticazione” di un documento attraverso la finzione. La particolarità che mi ha colpito, però, è che l’autenticazione passa attraverso una finzione che racconta l’esistenza di un mondo memoriale che non si sapeva neppure di avere. Questo secondo me è il lato più intrigante del vostro film: l’idea di raccontare una memoria interrotta dalla morte che riprende vita e si riallaccia a se stessa in modo mistico, laddove c’era stato uno strappo emotivo. Il traino del racconto di Anne è questo e ci parla chiaramente di qualcosa di intangibile che percepiamo spesso, soprattutto nelle situazioni traumatiche: l’esistenza di una memoria involontaria, ancestrale e in un certo senso incarnata ed ereditaria. Possiamo dirla con molti concetti, ma l’idea è fondamentalmente quella del ritorno memoriale delle cose attraverso manifestazioni di un inconscio collettivo sempre uguale a sé stesso eppure sempre diverso. Come ci racconteresti l’interesse per questo tema che ben si lega alle tue esperienze legate all’uso di archivi e documenti, che sono appunto dei mediatori di quella memoria incarnata?
Tutto quello che mi hai chiesto risiede, fin dalla stesura del soggetto, nell’interesse personale per il mondo della memoria, della mente e del tempo. Sono temi inestricabilmente connessi tra loro, che mi affascinano molto e partono da un interesse per la circolarità del tempo, quindi il tempo affrontato come qualcosa che è e che basta a sé stesso. In realtà, non intendo una circolarità vera e propria, ma un tempo ambi-presente che non è né circolare né lineare, secondo le teorie della fisica moderna per cui il tempo in realtà non esisterebbe. Quello che viene fuori dalla storia di Anne è un tempo che non esiste, come se piani temporali diversi fossero compresenti e stratificati, rispetto a una concezione consequenziale del tempo. Ecco, allora, come i ricordi di una persona morta 70 anni prima possono essere ancora vivi in un bambino nato 70 anni dopo. Si parte da un’idea di tempo che non passa, che è sempre lì, a livello concettuale perlomeno. Ad accentuare questa concezione del tempo c’è anche la questione che il fatto reale a cui si fa riferimento (la memoria di una vita passata da parte di James Leininger) rende la realtà paradossalmente ancora più fantastica. Il tempo risulta appiattito ed esiste solo il ricordo, in una sorta di circolarità, se vogliamo semplificare, tra il passato che è presente e il futuro che è presente. Alla base di questa operazione c’è l’intento di far concepire un tempo che non passa e che è una costruzione mentale superabile. Ricucire lo strappo del tempo può essere un modo di vedere la vicenda, certamente. L’evento traumatico irrisolto nel passato è ricucito e sublimato dall’abbraccio finale nel futuro: questo è possibile per la presenza assoluta del tempo. Lo spunto surreale del corto viene dalla storia del piccolo James, ma i discorsi sugli accumuli di coscienza e di ipercoscienza che travalica il singolo, arrivano da Jung, che è molto presente tra i miei riferimenti. Sintetizzando quanto dice, ci sono eventi emotivi nella vita delle persone che aprono uno squarcio nella realtà che viviamo, come la vicenda del soldato che muore in Anne; in questo modo l’abbraccio finale tra la sorella del soldato e James (che reincarna quel soldato) risana la ferita del tempo in una modalità extracorporea. Ci sono letture svariate oltre a Jung che si potrebbero recuperare su queste tematiche. Per tornare alla storia “vera”, posso dire che abbiamo ripreso parecchio di quanto si era documentato e pubblicato, in modo fedele. Questo tipo di storie non è l’unico che riguarda casi di paranormale e situazioni extracorporee. Riferimenti a questo caso, peraltro, si trovano in Roma di Cuaron per citare un film, ma soprattutto in molte culture che non sono quella occidentale, dove questo senso del mondo è molto presente. I riferimenti culturali in generale sono molti e tra i documentari sull’argomento ricordo recentemente Surviving Death di Netflix, in cui c’è un episodio dedicato al caso di James; ma stranamente film e sceneggiature su questo evento sono estremamente rare.
Stefano Malchiodi Domenico Croce
Qual è stato l’approccio nel riutilizzare immagini di repertorio con una storicità e riferibilità ben precisa che contrasta con quanto si vuole raccontare nel film?
I materiali di repertorio, in questo caso, sono stati presi con l’intento di farne riutilizzo dentro al riutilizzo, come nelle opere di Burri in un certo senso. Tecnicamente, il girato documentario che si vede ha senso solo quando lo si prende e lo si autentica nuovamente inserendolo in qualcosa di efficace come un racconto e da quello assume senso. Il senso, poi, viene ampliato anche dal modo in cui si fa questo riutilizzo, quindi ci vuole anche una nuova forma adeguata al nuovo racconto che si realizza e in cui il documento va a inserirsi. Il repertorio dell’Istituto Luce era in collegamento con la scuola Sperimentale e gentilmente abbiamo potuto accedere alle loro immagini per questo lavoro. Il grosso della battaglia aerea proviene dall’Istituto Luce, mentre le scene di battaglia di altro tipo erano poche e le abbiamo recuperate da un documentario Netflix, La Seconda guerra mondiale a colori (2019), che ha archivi molto belli: quello sul Pacifico è uno di questi, da cui abbiamo preso varie battaglie. Altro materiale, invece, è stato recuperato dagli archivi della Periscope Film.

Ricollegandoci invece al tuo passato di studi nel campo della produzione, quanto ti è servito conoscere questo ambito per muoverti adeguatamente nell’organizzazione e nella progettazione del lavoro e nella ricerca del budget? Inoltre, sarebbe interessante capire meglio cosa offre la realtà produttiva di cortometraggi per giovani cineasti tecnicamente e culturalmente molto competenti che si muovono in prospettiva di una carriera futura.
Per quanto riguarda questo aspetto, una fortuna del Centro Sperimentale è che si crea una fitta rete di contatti con amici, colleghi e professionisti, per cui si ha una sorta di troupe molto efficace e spontanea e le operazioni di ogni tipo si portano avanti in modo scorrevole. Oltretutto, il nostro è stato uno di quei casi fortunati in cui la produzione era indipendente, quindi con meno difficoltà di mediazione a livello produttivo; ma non è comunque facile muoversi nell’organizzazione senza un background di quel tipo. Ai tempi avevo scelto di studiare produzione perché mi interessava il cinema in generale; è stato uno sbaglio a livello lavorativo sicuramente, ma ho ottenuto una buona infarinatura teorica su come organizzare un lavoro di questo tipo e ho maturato idee chiare su tutte le fasi di realizzazione del film. Per realizzare Anne si è dovuto passare soprattutto attraverso bandi e concorsi, a cui però bisogna innanzitutto iscriversi compilando molta burocrazia, piazzarsi bene nelle relative graduatorie e ottenere le vittorie che permettono i finanziamenti. Questo fa capire come sia tutto molto approssimativo ed incerto anche con un buon lavoro in cantiere. La progettazione, per tutta questa serie di cose, è stata molto lunga già in partenza; la lavorazione, poi, è lunga di per sé. Quantomeno a livello finanziario si ha qualche beneficio nel mondo del cortometraggio, avendo solitamente dei prezzi bassissimi: il nostro aveva un budget intorno ai 5-6 mila euro, di cui quasi tutti in diritti per i materiali di repertorio. D’altro canto, non si può nemmeno sperare di avere rientri economici veri e propri, perché la distribuzione è perlopiù festivaliera. Per dei giovani registi l’unico obiettivo di un corto, tendenzialmente, è quello di costruirsi una strada e un nome nell’ambiente, quindi è una sorta di investimento sulla propria professionalità. Il corto è una forma piccola e libera, questo è il vantaggio indiscusso. La libertà di espressione che permette e la pluralità di voci che si affacciano a questo formato filmico è ossigeno per l’arte, anche perché le graduatorie e punteggi che permettono di vincere i bandi più sostanziosi molto spesso tendono a far andare avanti sempre gli stessi nomi, che sono investimenti produttivamente più sicuri.
Quanto ci hai appena detto sembra molto eloquente anche per quanto riguarda la situazione del cortometraggio in Italia e nella nostra industria cinematografica. Ci sono adesso, forse come conseguenza della situazione pandemica, forse per una crescente sensibilità artistica nei confronti di questo formato, molte più iniziative, anche streaming, che prevedono una buona distribuzione di cortometraggi (RaiPlay e Mubi per citare due esempi virtuosi). Come vedi e come descriveresti la situazione del cortometraggio? Circolare principalmente nei festival rischia di essere una pecca o un valore aggiunto nel caso di un cinema sperimentale e di ricerca come questo?
Facendo un parallelismo con la letteratura, i cortometraggi soffrono della stessa ambivalenza dei racconti brevi: è una forma molto sperimentale, molto libera, poco di intrattenimento, tuttavia è anche molto poco popolare. Gli esempi virtuosi che citavi, come Mubi, non a caso prediligono film di autore e di ricerca artistica. Forse sì, ci stiamo muovendo verso un panorama un po’ più aperto anche per la realtà del cortometraggio. Sarebbe bello se ci fossero più Mubi e Rai Play che aprissero canali streaming, con maggiore diffusione e specializzazione in questo settore. Gli spettatori ne sono affamati e sono sempre più in cerca di opere di questo tipo, almeno nelle nicchie di spettatori competenti. Per quanto riguarda il versante dei festival, invece, è vero, tendenzialmente circoliamo maggiormente lì. Non è detto che questo basti per riuscire a portare avanti i propri progetti in piena autonomia, ma sicuramente c’è la possibilità per chi è veramente motivato di imparare molto e costruirsi un percorso ricco di possibilità anche per future collaborazioni. Un amico produttore, scherzando, voleva scommettere su fatto che saremmo riusciti a superare o no le iscrizioni e partecipazioni a 200 festival. Questo per dire che fortunatamente esistono davvero tantissime iniziative e occasioni di promozione a livello festivaliero dedicate al cortometraggio.
Anne (2019) di Stefano Malchiodi e Domenico Croce è disponibile gratuitamente in streaming su RaiPlay (clic qui per il cortometraggio Vincitore David di Donatello 2021 – Miglior Cortometraggio).
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