
Brutti, sporchi e cattivi – La resa politica di Ettore Scola
Brutti, sporchi e cattivi, nel cinema italiano, lo sono prima di tutti i mostri di Dino Risi nell’omonimo film del 1963 scritto con Age & Scarpelli, Elio Petri, Ruggero Maccari ed Ettore Scola. Fanno seguito molte immagini, da quelle di Mario Monicelli a quelle di Marco Ferreri, sempre impegnate a registrare un cambiamento irrimediabilmente in atto nella nostra società. A rendere grotteschi i personaggi non è altro che la loro deformazione morale, l’individualismo un po’ goffo e un po’ spietato dovuto all’improvviso benessere che era scaturito dalla ricostruzione. Nel decennio successivo è poi lo stesso Scola – intanto passato dietro la macchina da presa – a dare a quell’abbozzo iniziale un preciso percorso. L’autore campano, in quanto militante del Partito Comunista, vede infatti come prioritaria l’autodeterminazione delle classi lavoratrici. Gli anni sessanta diventano perciò laboratorio di analisi sociologica e studio di ritrattistica.
Ogni film di Risi con protagonista Vittorio Gassman – da Il gaucho (1964) a Il profeta (1968), molti scritti proprio da Maccari e Scola – delineano le diverse possibili facce della trasformazione. La commedia all’italiana stessa nasce come specchio di storture e vizi. Ma anche autori più sottili come Antonio Pietrangeli e Nanni Loy trovano sostegno nei soggetti della coppia per capolavori come Io la conoscevo bene (1965) – il primo – e Made in Italy (1965) – il secondo. Il contribuito scoliano a questa filmografia è innegabile, e di una ricerca approfondita in materia – per citare un recente scritto di Raffaele Meale – «se ne sente una profonda mancanza nella saggistica». Molto si è detto di chi come Monicelli e Risi ha fatto ridere senza mai schierarsi, o di chi come Maselli e Petri ha preferito metterla sul dramma satirico, ma pochissimo si è osato scoprire di come un militante vero come Scola abbia potuto accettare di sorridere dei limiti di quella politica.

Ma l’abbruttimento del Paese è oggetto d’indagine anche per un altro (il più) grande intellettuale del periodo: Pier Paolo Pasolini. I suoi film, insieme a quelli del sodale Sergio Citti, fotografano un presente caratterizzato dalle ambizioni frustrate degli ultimi. Chi riesce a sistemarsi dimentica e stacca tutti gli altri nella corsa verso il futuro, mentre gli accattoni arrancano senza dignità da Ostia (1970) a Il minestrone (1981), senza prospettive. Cercare il cibo nei cassonetti, scroccarlo al ristorante, chiamarlo a gran voce ormai non sono cose di cui vergognarsi perché sembra che nessuno ascolti più. E se già Oreste (Marcello Mastroianni) e Adelaide (Monica Vitti) in Dramma della gelosia (1970) banchettano e amoreggiano sulla spazzatura come se fosse perfettamente normale, sarà in definitiva con Brutti, sporchi e cattivi (1976) che Scola allenterà la presa sulle illusioni ideologiche e prenderà coscienza di un decadimento ormai avvenuto.
L’epopea di Giacinto Mazzatella (Nino Manfredi), capofamiglia baraccato di un campo con vista sulla cupola di San Pietro, riflette in evidente stordimento un presente di stenti e disperazione per il sottoproletariato italiano. Le lotte sono finite – senza che all’apparenza abbiano mai avuto luogo – e il Sessantotto è ormai alle spalle. Il ricco è rimasto ricco e il povero è persino più povero. I parenti prossimi del protagonista vivono alla giornata, rubacchiando in città o accarezzando improbabili sogni di riscatto, ma soprattutto puntando alla piccola fortuna che l’uomo tiene nascosta da qualche parte. Un milione di lire, che cambierebbe la vita a chiunque, nei suoi incubi verrebbe da loro scialacquato in elettrodomestici, vestiti e facezie varie, perché ormai tutto si fagocita ciecamente come un piatto di pasta condito col veleno. L’unica comprensione (par troppo parlare di sentimento) risiede in una procace prostituta dai modi gentili seppure non priva di interessi, e alla fine non sembra esserci altro da fare che dare fuoco a tutto perché tutto resti uguale.

Il film quasi si abbandona alla contemplazione della sconfitta, mascherando il distacco emotivo con un divertito senso di sdegno. Ma, come si sa, la satira nasce per criticare il potere. Ridere degli oppressi andrebbe contro ogni buona intenzione, e difatti qui l’atteggiamento scaturisce presto nella compassione di mostri che hanno perso non solo la capacità di comunicarsi, ma forse anche il diritto di risollevarsi. Vediamo la macchina da presa girare in tondo dentro la baracca e sull’esistenza di queste persone: un giro di vite che diventa nel finale un susseguirsi di generazioni predestinate. I bambini crescono nel fango, non hanno idea di cosa sia la scuola, e vengono rinchiusi da mattina a sera in una gabbia che in età adulta ci sarà ancora anche se solo simbolica. Non a caso Scola aveva chiesto proprio a Pasolini di girare la scena d’apertura. Ma l’autore bolognese fu ucciso poco prima dell’inizio delle riprese, il 2 novembre 1975. Nel maggio dell’anno seguente, alla 29ª edizione del Festival di Cannes, Brutti, sporchi e cattivi ottenne infine il premio per la miglior regia.
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