
Charlie Chaplin – “Il monello” e il Vagabondo
I film di Charlie Chaplin – icona della slapstick comedy e tra le figure più contradditorie e amate della storia del cinema – hanno sempre goduto di un incredibile impatto sul pubblico, tanto per le soluzioni comiche “da torte in faccia” quanto per la loro profonda umanità.
Tuttavia, uno sguardo contemporaneo consente di intravedere una nuova chiave di lettura: a partire dalle comiche Essanay fino ai suoi primi lungometraggi, Charlie Chaplin esprime un forte conflitto interiore ed esteriore nei confronti di una società e un paese che non lo accoglierà mai, arrivando ad escluderlo deliberatamente, nel 1952, attraverso la “caccia alle streghe” maccartista. Il filo rosso che collega tutte queste pellicole consiste nel mostrare non solo tutta la superficialità della società borghese americana della prima metà del Novecento, ma anche tutta l’inadeguatezza del Vagabondo in un mondo che non lo accetterà mai.

Una cinematografia “anarchica”
«Due facce indossa l’anarchia, il creatore e il distruttore», diceva Alan Moore in V per Vendetta (l’opera a fumetti del 1982), e su questa linea di pensiero sembra correre Goffredo Fofi, nel descrivere Chaplin come il primo precursore dei tanti registi del no1: capaci di fare del cinema un’arma, questi cineasti militanti si dividono tra la volontà del rifiuto e quella della proposta, offrendo da una parte una denuncia delle ingiustizie sociali e dall’altra un messaggio di speranza per un mondo migliore.

L’anarchia – intesa come l’essere senza padroni e non senza regole – sembra quindi dominare la produzione filmica di Chaplin del muto, quella che vede come protagonista il Vagabondo: dopo un periodo di gavetta con il leggendario regista di comiche Mack Sennett, Charlot spicca il volo e si trasforma nella maschera che tutti conosciamo, raccontando la propria vita e i propri sogni attraverso una particolare battaglia contro i grandi mostri del capitalismo, dell’alta società e dell’industrializzazione.
Tutto è ribelle nel cinema chapliniano: sono ribelli gli oggetti, che per aiutare Charlot e chi lo circonda mai vengono utilizzati secondo la loro funzione originale, ma sempre in modi strampalati, sorprendenti e innovativi.

È ribelle il tempo che passa che, secondo le parole di André Bazin, viene «riassorbito da parte dello spazio»2, e sembra bloccarsi proprio nelle situazioni di difficoltà in cui il pubblico si aspetta che il Vagabondo attui una soluzione fulminea: a quel punto, Charlot decide di aggirare il pericolo, mimetizzandosi con lo spazio che lo circonda, come in Charlot soldato (Shoulder Arms, 1918), dove si traveste da albero nell’infiltrazione nelle trincee nemiche.
Ed è il principale ribelle lo stesso Vagabondo, che va contro le istituzioni, affronta i poliziotti e distrugge tabù e convenzioni sociali, sfruttando l’astuzia celata da quell’ingenuità che lo fa agire il più delle volte d’istinto.

Il Vagabondo si fa portavoce di quella parte di società spesso ignorata dalle cinematografie borghesi, mostrando orfani, catapecchie e individui vestiti di stracci che vivono nell’idillio di una vita misera ma libera da tutte le convenzioni sociali, restrittive e alienanti. È proprio a partire da Il monello (The Kid, 1921) che Chaplin ha occasione di mostrare tutte le sfaccettature di questi ambienti, arrivando a mascherare l’intento di denuncia sociale dietro lo squillo della risata.
Il monello: la creazione di un nuovo genere
«A picture with a smile — and, perhaps, a tear.»: ecco come si apre Il monello, comunicando allo spettatore tutto ciò che gli serve sapere riguardo al film nella sua interezza. Nella sequenza iniziale, una ragazza madre (interpretata da Edna Purviance, presenza costante nelle comiche chapliniane) abbandona suo figlio dopo essere stata espulsa dall’ospedale di carità: una scena straziante, alimentata da una colonna sonora drammatica e da un montaggio parallelo (in puro stile ejzenštejniano) che mostra immagini che rimandano all’iconografia cristiana, in particolare alla Croce.
Il film ha tutta l’aria di un dramma patetico, che solo David W. Griffith sarebbe stato capace di portare in scena, ambientato nei bassifondi dickensiani di una metropoli in rovina che non avrebbe bisogno del bianco e nero per sembrare grigia. Fino a che, nella sua «morning promenade», non appare il Vagabondo, e lo spettatore realizza di poter iniziare a sorridere grazie all’immediato contrasto tra il suo portamento impeccabile e il mucchio di spazzatura che lo colpisce, gettato da un balcone. E a quello stesso balcone torna lo sguardo del personaggio non appena trova il bambino abbandonato, automatismo da cui scaturisce una nuova risata, stavolta velata d’amarezza.
Così Charlot si ritrova padre contro la sua volontà, ma per quella caratterizzazione da “paladino degli ultimi” che ne dà Edgar Morin3, lo accoglierà come proprio e ne farà il suo piccolo aiutante per guadagnare qualche soldo.
Questa contaminazione di generi è proprio ciò che permette quell’originale intento di denuncia, che esprime quello spirito anarchico non convenzionale nel cinema borghese e, soprattutto, della early Hollywood. Tutte le figure rappresentate sono caricature di loro stesse: i due ladri della sequenza iniziale, con il pesante cerone in faccia; il dottore e il responsabile dell’ospizio, pomposi e grotteschi; persino l’impresario della ragazza madre ormai diventata famosa (interpretato dal caratterista Henry Bergman, altra costante nel cinema di Chaplin) ha la faccia deformata in una maschera. L’unica che si salva è proprio il personaggio di Purviance che, quasi a ricordare che il suo unico peccato è stata la maternità, appare pura e angelica.
Il dolore e il messaggio di speranza
E poi c’è il “monello” del titolo, portato sulla scena dall’incredibile Jackie Coogan, che altro non è se non una proiezione in miniatura del Vagabondo stesso, con la sua mimica e i suoi piccoli manierismi. Così come il Monello influenza il Vagabondo, accade il processo contrario e Charlot a fianco del bambino ha modo di esprimere tutta l’ingenuità dei suoi portamenti, come se stesse vedendo il mondo per la prima volta: insieme, i due sono quelli che Fabrizio de André chiamerebbe “anime salve”, gli ultimi tra gli ultimi, i reietti e i dimenticati.
Su quella che potrebbe essere una vita perfetta il crudele destino fa piombare le imposizioni indette dalla società, un mostro molto più grande di loro: in seguito ad una denuncia, nella catapecchia legnosa dove abitano i due accorrono due funzionari dell’orfanotrofio per portare via il bambino.
La scena, la più drammatica del film, sembra raccogliere tutte le piccole, personali ribellioni raccontate dalla filmografia chapliniana: in primis contro i costumi e le istituzioni sociali, sulle quali il Vagabondo butta un’enorme scodella di farina prima di scoppiare in una lite, e in seguito contro le convenzioni del cinema stesso, quando decide di direzionare il suo sguardo disperato direttamente nella macchina da presa. Tutto il dolore di quel momento si abbatte sullo spettatore e improvvisamente non c’è più spazio per il sorriso.

In questo sguardo viene trasmessa non solo la frustrazione nel non essere riuscito a fermare le guardie, ma anche la rigida e terribile consapevolezza di essere ancora un “ultimo”, intrappolato tra le grinfie di una società dominata dagli alti poteri che sottomette i più bisognosi, proprio come lui è tenuto fermo dal funzionario dell’ospizio e dal poliziotto. Tuttavia, proprio quando tutto sembra essere perduto, il Vagabondo si libera dalla presa, scala i tetti e riesce a recuperare il suo monello, ribellandosi ancora una volta.
Chaplin utilizzerà questa forma di rottura in un altro magnum opus, Il grande dittatore (The Great Dictator, 1940), con il famosissimo “discorso all’umanità” che comunica intenzionalmente un messaggio di speranza piuttosto che di denuncia; questa stessa prospettiva per un futuro migliore verrà riproposta, per un breve attimo, nell’ultima sequenza del suo testamento filmico, Luci della ribalta (Limelight, 1952), nell’esibizione teatrale completamente muta accanto al suo grande collega Buster Keaton.
Il regista inglese si fa così creatore e distruttore, portando in scena un eroe anarchico della lower class che spera in un mondo migliore, prendendo per mano lo spettatore e camminando nell’alba di un nuovo giorno.
Note
1 Goffredo Fofi, Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società, Milano, Elèuthera, 2015.
2 André Bazin, Che cosa è il cinema? Il film come opera d’arte e come mito nella riflessione di un maestro della critica, trad. di Adriano Aprà, Milano, Garzanti, 1999.
3 Edgar Morin, Le star, trad. di Tina Guiducci, Milano, Olivares, 1995.
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