
The Idle Class – Charlie Chaplin e le prospettive del comico
Un Chaplin in stato di grazia, reduce dal successo del travagliato e ambizioso The Kid e lanciato sempre di più verso la completa indipendenza produttiva – anche se ancora legato alla First National – è l’artefice di un gioiello del meccanismo comico ad orologeria, The Idle Class (in Italia, Charlot e la maschera di ferro), che a 100 anni dalla sua uscita sa porsi come immagine delle sperimentazioni che il giovane autore metteva alla prova per aprirsi al mondo del lungometraggio. Gli esilaranti trenta minuti di puro ritmo narrativo diventano un catalogo di possibilità cinematografiche, in grado di anticipare stilemi e linguaggi della filmografia a venire con la sola ambizione dell’artigianato più sincero.

C’è tutta la tradizione del cinema comico slapstick in The Idle Class, che porta avanti un racconto da rivista, quasi un pretesto – eppure un pretesto colto, come vedremo, e privo di arroganza – matematicamente suddiviso nei suoi canonici atti di svolgimento e punteggiato da gag improvvisi, scoppiettanti, strettamente legati alla fisicità attoriale. La cassetta degli attrezzi di Chaplin è qui tutta messa in gioco e spinta al suo limite: non solo il corpo dell’attore, ma lo sfondo stesso diventa partecipe della macchina comica articolata sullo schermo (in The Glod Rush e soprattutto in City Lights ne avremo gli effetti più sorprendenti), dimostrando un’attenzione alla costruzione del mondo che ha eguali solo nelle incredibili macchine sceniche di Buster Keaton.

In The idle Class la scena chapliniana, seppur ancora in prevalenza legata allo sguardo della camera fissa sulla figura intera, si articola sul suo fondo creando un’ambientazione su più piani, profonda e narrativamente sempre significativa. Il campo da golf, le stanze del palazzo, le strade e le vie diventano luoghi dello sguardo e dell’azione potenziale, da cui aspettarsi improvvisi momenti di inaspettata comicità; se la scena resta ancora permeabile fuori dal suo campo in tutte le direzioni, in The Idle Class Chaplin ci propone un’immagine senza parete di fondo, anzi, senza pareti in generale, capace di estendersi oltre il tradizionale piano della figura inquadrata (da notare, Citizen Kane sarebbe arrivato solo vent’anni dopo).

Chaplin gioca con l’estrema malleabilità della figura del suo Vagabondo, immaginandolo come un’immagine al di là del suo ruolo; si crea così la figura di un doppio credibile e già riconoscibile anche fuori dai panni del Vagabondo (che rivedremo in City Lights e soprattutto in The Great Dictator). Il corpo di Chaplin si fa portatore di un personaggio potenziale efficace in ogni contesto, persino se sdoppiato: sia il nobile alcolista che il classico Vagabondo condividono qui rimandi nella memoria dello spettatore, sempre più impaziente di assistere alla collisione tra questi due riflessi della stessa figura. E l’incontro avviene attraverso il pretesto letterario – Il visconte di Bragelonne di Dumas, qui al suo primo adattamento cinematografico – che permette la coesistenza di due Chaplin (ovviamente col Vagabondo pienamente visibile).

Le macro-sequenze comiche che punteggiano The Idle Class sono composte da microscopici istanti che articolano il meccanismo esatto di costruzione della risata. Chaplin le cuce insieme con consapevole maestria, forte di un bagaglio già enorme di cortometraggi alle spalle (e aveva ancora solo 33 anni), spingendo al suo estremo ogni situazione come difficilmente si sarebbe visto in altri film comici. L’esasperazione dell’assurdo diventa l’interruttore dell’efficacia di The Idle Class che, nei suoi intenti, diventa una feroce, seppur sottile, critica alla classe sociale cui si riferisce, i cui drammi – esasperati – si consumano per inezie: palline da golf, costumi incastrati, frasi fuori posto.

Eppure, visto oggi a 100 anni di distanza, The Idle Class di Chaplin si rivela ricco di potenziale discorsivo: tutta la storia del matrimonio che sottende il sottile strato narrativo è leggibile come l’impossibilità per una donna di uscire da un rapporto non voluto, frutto dell’impotenza a liberarsi anche di fronte all’esatta immagine speculare del proprio carceriere; Edna trova nel Vagabondo la via della libertà, ma il Vagabondo stesso, seppur libero, è destinato ancora per molto a camminare da solo.
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