
Giorno di paga – Chaplin e la coreografia del moderno
È molto complicato osservare un cortometraggio come Giorno di Paga (Pay Day, in originale, con tutte le sfumature del caso) oggi, con in mente lo strabiliante percorso che Charlie Chaplin ha compiuto nei quindici anni che separano questa pellicola da Tempi Moderni (1936), trovandovi in mezzo La febbre dell’oro (1925) e – per chi scrive – l’insuperabile Luci della città (1931). È complicato perché in quei 25 minuti troviamo sintetizzati – dentro una trama esile e dopotutto non così centrale – alcuni stilemi che diventerebbe troppo semplice voler ritenere i prodromi di un linguaggio a venire. Eppure Giorno di Paga è qualcosa di unico, di solido in sé stesso e profondamente dirompente.
Come in altri dei primi corti indipendenti di Charlie Chaplin degli anni ’20 – l’avevamo già notato parlando di The Idle Class – Giorno di Paga è una sorta di laboratorio del personaggio del Vagabondo, non più relegato a una formula fissa e non ancora partecipe di una sorta di continuity sottesa attraverso i lungometraggi; qui la maschera del Vagabondo diventa un pretesto identitario puramente plastico, un pupazzo malleabile e adattabile a situazioni – non racconti – dalla pura forza estetica, priva di uno scopo se non l’efficacia rappresentativa. Nei 25 minuti del corto ci troviamo di fronte a un susseguirsi di quadri in cui il ritmo vale più del raccordo, dove l’espressività dell’azione restituisce più significazione delle didascalie.

Il Vagabondo inizia scavandosi (molto svogliatamente, va detto) una fossa – non la propria, dato che era già pronta – e si dimena lungo una giornata di lavoro scandita da un orologio tanto diegetico quanto scopico: i ritmi degli operai diventano il canovaccio di azioni magnetiche, sfociate in un susseguirsi di movimenti eidetici che ricalcano la condizione estrema del vagabondo, diviso tra l’incapacità di mangiare un panino e l’estrema abilità nel costruire un muro di mattoni. Proprio la scena della costruzione, mandata al contrario per mostrare un Vagabondo in grado di prendere al volo dei mattoni lanciati dal basso, è una danza sorprendente, specchio della consapevolezza e dell’atleticità del corpo attoriale di Charlie Chaplin, poche volte così messo alla prova come in Giorno di Paga.
In una sorta di estetica rubata al modo operistico, assistiamo a un’alternanza tra recitativo e introspettivo, tra momenti di pura azione come quello del lavoro e momenti di alterazione del sé – forse meno efficaci – in cui l’ubriachezza della massa attoriale decostruisce un ambiente cittadino impossibile, chiuso in un teatro di posa così materiale che la macchina da presa non vuole e non può rendere ideale. È qui che il visivo si piega su sé stesso, restituendo una scena in cui il corpo-massa, percorrendo i tempi, si fluidifica in materiale comico dalla mole impressionante: è infatti in Giorno di Paga che Charlie Chaplin mette in scena la stessa sequenza che rivedremo nel 1975 in Fantozzi, dove una massa di operai si arrampica su sé stessa per prendere il mezzo che conduce nei luoghi del proletariato, con una scansione di azioni quasi totalmente ricalcata da Salce e anticipate dal corto del ’22.
E se i formati del tempo necessitavano una dimensione narrativa su cui applicare le sperimentazioni sceniche, Chaplin in questo decide di adagiarsi su una tradizione piccolo-melodrammatica che strappa il riso attraverso lo stilema, in una scenetta familiare tutta da decifrare e in netta frizione con ciò che del Vagabondo è rimasto nella memoria collettiva. Eppure Giorno di Paga, nonostante le differenze marcate ed evidenti, resta una sincera messa in scena chapliniana, in grado di portare avanti una dirompente “denuncia” sociale con il solo uso del potenziale estetico che dalla danza scoppia in pura comicità.
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