
Cherry – Innocenza perduta | I fratelli Russo ci provano dopo “Avengers: Endgame”
Cherry – Innocenza perduta arriva distribuito come originale sulla piattaforma streaming di Apple TV+, proprio in concomitanza del controsorpasso di Avatar su Avengers: Endgame come miglior incasso della storia del cinema (non calcolando l’inflazione). Due titani della sala che si sono inseguiti a suon di record nei botteghini di tutto il mondo sin dall’uscita di Endgame nel 2019, con il film di James Cameron, arrivato dieci anni prima, che proprio con una nuova release in Cina (feroce ironia di questi tempi pandemici) torna a posizionarsi in testa. Tutto mentre mamma Disney osserva compiaciuta, ora detentrice anche dei diritti distributivi di Avatar grazie all’acquisizione della 20th Century Fox.
Film titanici con superdonne e superuomini ibridati da tecnologia e poteri oltre il naturale, ma anche con titani veri e propri come quel Thanos del Marvel Cinematic Universe, la cui oscura parabola è stata chiusa da Anthony e Joe Russo proprio con Endgame. Ora, con Cherry, i due fratelli paiono svestire solo in apparenza gli sgargianti panni del cinecomic per inseguire le sorti dell’amichevole militare-tossico di quartiere di Tom Holland. Non ci sarà il budget spropositato di casa Marvel, non ci sarà l’effettistica digitale che sprizza artificio da ogni frame, soprattutto non c’è la sala, ma quel che resta è certamente un’ipertrofia che pervade insistentemente l’intero film.

La storia i Russo la vanno a prendere dall’omonimo romanzo a cavallo tra biografia e finzione di Nico Walker, per farlo poi adattare alla sceneggiatura da Angela Russo-Otstot e Jessica Goldberg. E questa assume i toni di un’epopea a metà, tra la premessa ordinaria e l’evoluzione extraordinaria, quasi di rovesciamento di un superomismo che eppure rimane decisamente super e molto omistico. Infatti non è certo faccenda comune quella che coinvolge il protagonista-narratore senza un nome, arruolato repentinamente nell’esercito per una cocente delusione d’amore e poi, al ritorno, divenuto tossico a causa dello stress post-traumatico che lo conduce a rapinare banche per pagarsi l’ago in vena. Cinque atti più prologo ed epilogo per tracciare la rotta di una strada che incrociamo nei primi anni duemila e salutiamo a ridosso della contemporaneità.
Quella del Cherry di Tom Holland è una discesa nel mondo dell’autodistruzione che curiosamente non prende mai una reale posizione nei confronti dei vari baratri che questo personaggio attraversa. Un vortice che a dire il vero tira nel mezzo anche la compagna di una vita intera Emily (Ciara Bravo), al fianco del suo amato nel bene (poco) e nel male (tanto) pur rimanendo rigorosamente nella sua ombra e in sua balia. Le storture e gli orrori di cui è costellato questo percorso paiono, insomma, costantemente lasciate planare sulla superficie di un ingombrante gigantismo di cui i fratelli Russo si appropriano tramite una spesso esasperata regia.
È una sorta di sperimentalismo ad ogni costo che prende piede lì dove i due registi sembrano sentirsi orfani della muscolatura digitale e della rigida codificazione visiva del cinecomic. Quasi fossero malati di una libertà che il duo sente la necessità di dover esprimere in ogni forma e ogni dove: messe a fuoco sbilenche, compressione dei formati, POV impossibili, tutto declinato sotto l’egida di un’opulenza visiva che non rinuncia nemmeno all’interpellazione e al voice over che fa da raccordo tra i vari capitoli del racconto. Sia chiaro, il problema non è tanto nell’amalgama finale che, ad essere onesti, seppur ingombrante lascia in qualche modo fruirsi. Bensì la criticità sta proprio nel fatto che questa fruizione si erge sopra un qualsiasi rafforzamento delle tematiche collaterali alla narrazione.

Verrebbe naturale domandarsi se nella rinnovata novella del veterano abbandonato dal proprio Paese ci sia un sottotesto critico, ma è in questi frangenti che Cherry non scardina, non accusa, tantomeno si interessa. Ad esempio, l’ironia della formula che avvolge l’addestramento militare non è sufficiente a evidenziare l’idiozia di un sistema che poi si scontra poco dopo con l’orrore della guerra, muovendosi tra l’altro sulla falsa riga di uno scimmiottamento alla Full Metal Jacket. Anche qui, si resta più che altro nel barocco, nella questione di stile, in un esercizio di postmodernismo riflesso e senza carica elettrica, sterile.
L’unico filo che rimane al centro è quello di un’epica personale piuttosto sincopata, cucita sulle spalle di un Holland sì bravo, ma credibile a metà nella sua fisicità morbida che corre rapidamente dalla post-adolescenza all’età adulta. Certo, si tratta della fanciullezza violata, cristallizzata di questo eterno giovane, che al contempo cozza con i residui machisti di un film che guarda esclusivamente al maschile e oscilla senza omogeneità di tono.
Non vengono nemmeno in aiuto le circa due ore e venti di durata del film, retaggio rimasto invariato dalla vita dei Russo sotto i Marvel Studios, che alla loro prima avventura in solitaria post-Endgame manifestano una grande varietà ed effervescenza di intenti, probabilmente pure troppi per essere gestiti compiutamente.
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