
Mon oncle – Le città invisibili di Jacques Tati
La quadrilogia di film di Jacques Tati – composta da Jour de Fête nel 1949, Les Vacances de Monsieur Hulot nel 1953, seguito da Mon Oncle nel 1958 e infine Playtime nel 1967 – testimonia la trasformazione del mondo e dell’uomo nell’epoca di transizione che dal dopoguerra portò alla società dei consumi. Il cinema, nei suoi 125 anni di vita, ha ritratto un’enciclopedia infinita di spazi architettonici, plasmando l’immaginario urbano collettivo e configurandosi persino come sorgente e ispirazione di nuovi elementi e possibilità progettuali. Il medium cinematografico è soprattutto uno straordinario archivio di spazi vissuti, popolati dai corpi degli attori e attraversati dalla vita dei personaggi. Nel tempo, sulle città si sono sedimentati strati di pellicole in filmografie che, se indagate in un’ottica di archeologia architettonica, testimoniano e documentano l’evoluzione non solo del tessuto urbano, ma anche i cambiamenti socioculturali che dal XX secolo hanno condotto al presente.

Mon oncle, in particolare, terzo lungometraggio diretto da Tati e suo primo film a colori, ragiona sul conflitto tra tradizione e modernità istituendo questa contrapposizione su un piano prima di tutto spaziale. In una futuristica villa ultramoderna nella zona nuova della città abita Monsieur Arpel, ricco industriale completamente annichilito dall’insaziabile ricerca di agiatezza, insieme alla moglie, che dedica tempo e energie a rendere perfettamente ordinata la biosfera domestica, e al figlio di nove anni, Gérard, ingabbiato in una vita sterile dove tutto si ripete automaticamente. L’unico in grado di regalargli momenti di gioiosa semplicità è il fratello della signora Arpel, il maldestro zio Hulot (interpretato dallo stesso Jacques Tati), sognatore bohémien appartenente ad un passato destinato a dissolversi nel vortice dell’uniformazione dettato dal capitalismo. Monsieur Hulot, dall’essenza naturalmente anticonformista, si scontra così con la vacuità borghese, l’ossessione per la modernità e per il consumismo, senza mai riuscire, come un novello Charlot, ad adeguarsi ai “tempi moderni”.

Il significato dell’architettura in Mon oncle
In Mon oncle, che vinse il Premio della Giuria al Festival di Cannes 1958 e l’Oscar come miglior film straniero l’anno successivo, l’architettura perde la sua tradizionale funzione di sfondo, divenendo perno narrativo: gli spazi, attraversati e vissuti in modo antipodico dai personaggi appartenenti a ciascuno dei due universi, raccontano visualmente la storia dolceamara dell’inevitabile scomparsa di un mondo. La parte vecchia e nuova della città rappresentano infatti due differenti concezioni della vita, delimitate da un muretto di mattoni diroccato, zona di confine (fisico e sociale) che viene attraversata, nell’incipit, solo da un gruppo di cani vagabondi e poi da Monsieur Hulot, anch’egli vagabondo di chapliniana memoria. mon oncle jacques tati
Da un lato il mondo di Monsieur Hulot, ricreato da Tati nella piazza del sobborgo parigino di Joinville-le-Pont, è fatiscente e datato, ma colmo di comunità e calore: Hulot abita in un enorme palazzo in cui non si riesce a distinguere lo spazio privato da quello pubblico, brulicante di vita e confusione, proprio come la piazza e le vie circostanti, dove i ragazzini si rincorrono mentre personaggi goffi e stralunati si aggrovigliano in scene di dolce e limpida umanità, cui fanno eco le voci del mercato.

La sua antitesi è la zona residenziale, dove ogni abitazione, recintata da cancelli, appare come una monade ostile al mondo esterno, ordinato reticolo di strade vuote il cui silenzio è incrinato solo dal passaggio delle automobili. Villa Arpel annuncia ciò che più tardi il regista e critico Thom Andersen in Los Angeles Plays Itself (2003) chiama “la guerra di Hollywood contro il Modernismo”, ovvero la frequente associazione del movimento moderno con la distopia: è infatti la configurazione dello spazio, concepito più come vetrina che come un luogo abitabile, ad impedire l’instaurazione dei rapporti umani.
La veemente satira anti-borghese si condensa nella grottesca combriccola di marionette – oggetti tra gli oggetti – che si aggroviglia nel party in giardino a Villa Arpel. Il pretenzioso linguaggio borghese, vacuo brusio di frasi convenzionali e cerimoniose, esclude Hulot, mimo sgangherato che non ha bisogno di parlare per farsi capire dalla sua gente. mon oncle jacques tati

Villa Arpel – scrive Tati nella sua sceneggiatura – «è una villa pretenziosamente modernista, così geometrica da aver perso qualsiasi carattere umano o abitabile». La casa, dotata di straordinari congegni tecnologici, è anche la sua stessa contraddizione: ogni dettaglio ci racconta un mondo in trasformazione, dove i gesti quotidiani devono ancora rapprendersi in una nuova familiarità. E così Hulot, sconcertato dalle nuove funzioni e oggetti della cucina, rompe un bicchiere che pensava essere di plastica, mentre i padroni di casa rimangono imprigionati nel nuovissimo garage automatico.
Ma questo non significa che Tati fosse contrario al Modernismo. In Mon oncle la rappresentazione parodica dell’architettura e del design modernista della Francia del dopoguerra non si limita infatti alla sola funzione di enfatizzare le gag comiche sullo schermo: Jacques Tati, interessato al modo in cui gli edifici della vita reale possono influenzare le persone che ci vivono, esplora ed innova la rappresentazione dello spazio visivo, preoccupato più di come l’uomo avrebbe potuto abitare e vivere in un mondo futuro, piuttosto che del del futuro del design dal punto di vista meramente estetico.

Divenendo film-maker sotto ogni punto di vista, incluso quello del design, il poliedrico artista francese ha ideato e progettato Villa Arpel – costruita in uno studio cinematografico a Nizza – così come i mobili e tutti i set in cui il film è ambientato, unendo innovazione estetica, stili gradevoli ed essenziali a difetti comici e spazi assurdi. Così Tati critica quel mondo nuovo che stava emergendo – “prodotto” del consumismo di matrice americana – e i valori pervasivi della classe media, al contempo esplorando il design residenziale con gusto e suggerendo persino nuove lungimiranti prospettive di interrelazione tra società e architettura.
E dunque, proprio perchè «un film non è pensato, è percepito», come scrive nel 1945 il filosofo Merleau-Ponty, Mon oncle è esempio vivido e diretto di quanto previsto dal regista e scrittore Patrick Keiller in The View from the Train: Cities and Other Landscapes: «Nei film si possono esplorare gli spazi del passato, per anticipare meglio gli spazi del futuro».

«Sia l’architettura che il cinema implicano un modo cinestetico di vivere lo spazio», scrive l’architetto finlandese Juhani Pallasmaa: il cinema, regalando allo spettatore squarci di vita vissuta e frammenti di realtà pre-esistente, si rivela repertorio e strumento di valutazione post abitativa (o post occupativa, da Post Occupancy Evaluation, ovvero un processo sistematico di valutazione delle prestazioni degli edifici dopo che sono stati costruiti e occupati per un periodo di tempo).
Il film può allora considerarsi la forma in movimento di quella che lo scrittore britannico Jonathan Raban chiama “Soft City” nel libro omonimo: «La città come la immaginiamo, la città morbida dell’illusione, del mito, dell’aspirazione e dell’incubo, è reale, forse più reale, della città dura che si può individuare sulle mappe, nelle statistiche, nelle monografie sulla sociologia urbana, sulla demografia e sull’architettura». mon oncle jacques tati

Mon oncle di Jacques Tati e Parasite di Bong Joon-ho
Mon oncle si rivela inoltre un riferimento per l’acclamato Parasite di Bong Joon-ho (2019). In entrambe le opere l’architettura residenziale è un personaggio protagonista, con una simile funzione narrativa, sociale e politica. Nel contrasto tra il seminterrato grigio e fatiscente della famiglia Kim e le ampie finestre dall’imponente villa minimalista della ricca famiglia Park – anch’essa interamente creato da zero in un set cinematografico attraverso la collaborazione con lo scenografo Lee Ha Jun – si riflette la contrapposizione tra il mondo di Hulot e la geometria artefatta ed asettica di Villa Arpel. Hulot, proprio come la famiglia Kim, diviene un intruso, un parassita, appunto, a Villa Arpel, che però tradisce i suoi proprietari come la villa di Parasite si trasforma in una diabolica trappola per i Park. A Mon oncle manca un armadio pieno di terribili segreti per trasformarsi in tragedia, ma il valore dell’opera risiede in una relazione essenziale con l’architettura, nucleo di significato tutt’altro che deittico e anzi capace di parlare, con malinconica dolcezza, ad ogni tempo e ad ogni spazio.

Bibliografia :
- Alison Castle, The Definitive Jacques Tati, Taschen, 2019.
- Patrick Keiller, The View from the Train: Cities and Other Landscapes, Verso Books, London-New York 2013, pp. 141-145.
- Maurice Merleau-Ponty, “Il cinema e la nuova psicologia”, in Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962.
- Juhani Pallasmaa, The Architecture of Image: Existential Space in Cinema, Rakennustieto, Helsinki 2000.
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