
Una Separazione – Il capolavoro di Asghar Farhadi compie 10 anni
Una separazione, di Asghar Farhadi, festeggia oggi il suo decimo compleanno sul grande schermo, una ricorrenza che non solo celebra la pellicola medio-orientale forse più premiata del XXI secolo, ma ci invita a ripercorrere le vicende persiane di un film che ha posto l’Iran sotto i riflettori di una contemporaneità sempre più attenta nei confronti dell’Oriente e della grave interdipendenza tra Stato e Arte. Il capolavoro del regista di Teheran è stato il primo film iraniano ad essersi aggiudicato l’Orso d’Oro, alla 61esima edizione del Festival di Berlino dove riceve anche due Orsi d’Argento, e il primo film iraniano ad aver ricevuto il Premio Oscar come migliore film in lingua straniera nell’edizione del 2012, oltre ad un Golden Globe nella stessa categoria di concorso. Una separazione, anche se posteriore a molti film iraniani di successo, soprattutto in ambito autoriale – prime tra tutte le pellicole di Abbas Kiarostami e Mohsen Makhmalbaf, maestri della seconda nouvelle vague iraniana – e coetaneo di Jafar Panahi, altro autore di opere pluripremiate in ambito internazionale, apre a tutti gli effetti alla cinematografia iraniana uno spazio di visibilità esponenzialmente maggiore, allargando lo spettro di accoglienza dai festival europei alle cerimonie americane e incontrando, così, un pubblico onnicomprensivo di cinefili e non.

A un incremento quantitativo dei propri estimatori non corrisponde affatto, nelle opere di Farhadi, un lavoro di de-autorializzazione: About Elly (2010), Una Separazione (2011), Il Cliente (2016), le pellicole che lo confermano di Oscar in Oscar regista-autore mantengono intatta la capacità di offrire orizzonti di indagine sull’Iran e sulla natura umana che l’esperienza teatrale di Farhadi proietta in cornici sceniche quasi prive di schermo a cui non si può che prendere parte. La natura vocativa dei suoi film lavora a pieno ritmo all’organizzazione di una mise en place che occupa tanto lo spazio diegetico quanto quello extra-diegetico, e mentre sullo schermo si consuma quella che è in fin dei conti la ricerca di una dimensione umana stabile, fuori dallo schermo l’invito a fare altrettanto è imperativo. L’iran, con tutte le sue incongruenze e contraddizioni, rompe la quarta parete attraverso la sua richiesta di performabilità: le narrazioni farhadiane sono iraniane e non iraniane, denunciano e allo stesso tempo fingono il dramma di un Paese che della censura fa un uso poco parsimonioso. Imponendo un cinema iper-regolato e controllato, il governo iraniano diventa vittima della propria visione “debole” del mezzo cinematografico, mentre i suoi figli d’arte fanno dell’Iran un detto-non detto visuale: un terreno di lavoro finzionale e altamente equivoco entro i cui margini inscrivere pellicole auto-rivelatrici potentissime.

Una separazione rappresenta un momento produttivo elevatissimo lungo un percorso autoriale di quasi totale autonomia artistica per Farhadi: regista, autore del soggetto e sceneggiatore, produttore in proprio, un lavoro pluridimensionale di supervisione e creazione comune a quasi tutti gli autori iraniani. Per quanto la pellicola si apra con la presentazione di un’istanza di divorzio da parte di Nader e Simin, questa fa solo da incipit al decorso di una narrazione che implica più di due soggetti in causa. Per Farhadi “separazione” qui vuol dire “incomunicabilità”, una lontananza strutturale che colloca in condizioni emotive e in spazi scenici bipartiti tutti i personaggi, ognuno stretto alla propria versione della verità dei fatti. Le contraddizioni dell’Iran diventano qui contraddizioni casalinghe, campi/controcampi carichi di tensione e rivolti a un pubblico di “testimoni” interdetti. Il cinema di Farhadi si fa testimone a sua volta dell’impossibilità di attribuire colpe e di risarcire vittime e dunque, in senso lato, del bisogno di smantellare tutte le forme di estremismo a partire dalle fondamenta.

Quasi in opposizione artistica con la new wave iraniana, Farhadi privilegia un rapporto col proprio mondo e con le immagini di impronta realista: il regista sceglie di parlare dell’Iran lasciando parlare i suoi protagonisti, di celare le nudità del suo Paese mettendo a nudo Nader, Simin, Termeh senza mezzi termini e senza spettacolarizzazione alcuna. La quotidianità diventa il palcoscenico di neorealista memoria per la vicenda coniugale, anzi pluri-conigale del film: tutti rapporti fatti di continua accoglienza e rifiuto, quelli farhadiani, che attraverso la banalità del loro diurno disfacimento offrono l’esame autoptico dei più comuni rapporti interpersonali a Teheran. Invece di comprimere simbolicamente il proprio messaggio, il regista sceglie di esporlo in vetrina a 360 gradi: il Farhadi rosselliniano segue i suoi attori lungo le strade di un Paese esposto alla macchina da presa senza lenti corrotte, e restituito allo spettatore nella maniera più intatta e “reale” possibile.

A dieci anni dalla sua uscita in sala, Una separazione assiste dunque in retrospettiva al proprio compimento: il cinema iraniano continua a vivere di contraddizioni, di “separazioni” interne, un governo severo con i propri artisti che di contro manifestano un bisogno creativo sempre vivo. Attraverso un ritratto così veritiero dell’Iran eppure così de-localizzato nella prototipicità dei suoi abitanti, il capolavoro di Farhadi diventa attendibile ritratto di ogni forma di contraddizione. Un film non soggetto all’invecchiamento dei mezzi artistici ma sottoponibile a sempre nuove chiavi di lettura e, soprattutto, un’opera capace di scardinare i limiti della propria condizione empirica grazie alle potenzialità dell’universo cinematografico e alla sua capacità di creare mondi alternativi all’interno di mondi troppo stretti.
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[…] proprio dall’acume del suo sguardo sulla materia umana – la stessa che troviamo in Una separazione (2010) – per parlarci di incomunicabilità, scollamento indennitario e tra uomo e […]