
Un Eroe – Asghar Farhadi e la verità fuori-scena
Il protagonista di Un eroe, ultimo film di Asghar Farhadi, è il carcerato Rhaim, che entra in possesso di una borsa con alcune monete d’oro durante un permesso premio. La sua è una semi-libertà giuridica ma anche morale, perché si troverà davanti ad una scelta: saldare parte del debito col suo creditore per uscire dal carcere, oppure cercare la proprietaria della borsa per restituirgliela, quanto basta per diventare un eroe mediatico.
È sufficiente un atto esemplare che riscatti l’individuo per un renderlo cittadino modello, un eroe per l’appunto, ovvero il protagonista perfetto per un racconto televisivo. Ecco che il titolo Un eroe ci induce in errore nello stesso modo in cui i racconti sensazionalistici, seduttivi e patetici che riempiono i flussi mediali ci restituiscono un riscontro parziale della realtà, ambendo ad essere custodi di una realtà oggettiva.

Ma Farhadi non è Haneke, nella misura in cui il suo non è un cinema di schermi negli schermi e riflessioni, ma un’esplorazione etica e psicologica dell’universo borghese, che per la prima volta accetta nel racconto l’eco mediatico come coro inedito. I media, in Un eroe, sono lo sguardo dell’ambiente sul protagonista ma anche una minaccia, un’entità manipolatoria che mette in pericolo la sua dignità. Farhadi è esemplare nel suo mettere in scena la rigidità culturale di una società ostinatamente ancorata ai rituali vuoti dell’onore e della reputazione, soffocata dalla burocrazia e di fatto, ancora divisa per classi.
Dopo le esperienze estere de Il Passato (2013) e di Tutti lo sanno (2018), Farhadi torna in Iran raccontando la società e scegliendo una parabola morale universale. Le note thriller delle sue sceneggiature così incalzanti e tensive si commistionano ad un approccio d’autore che predilige la verbosità dei dialoghi, il senso di realtà della storia. In buona parte dell’opera iraniana di Farhadi riecheggiano infatti il senso di immediatezza delle fiabe realiste di Kiarostami e lo sguardo antropologico, così affettuoso verso l’essere umano, di alcuni film di Jafar Panahi. E Farhadi riparte proprio dall’acume del suo sguardo sulla materia umana – la stessa che troviamo in Una separazione (2010) – per parlarci di incomunicabilità, scollamento indennitario e tra uomo e società.

Come ne Il Cliente (2016) e altre opere del regista iraniano, l’evento scatenante accade prima che la narrazione cominci. Rhaim è già in possesso della borsa, quello che è avvenuto prima è riportato dai personaggi sulla scena, dai loro racconti. L’immagine ha perso il suo dominio sulla realtà, non è più deputata al racconto oggettivo dei fatti, e questo, è forse il perno concettuale su cui si erge questo film così solenne e al contempo realistico.
Farhadi racconta gli ultimi nel chiasso della post-verità, dell’infodemia, dell’ossessione per un racconto che incanti le coscienze, ma soprattutto che edulcori la fallibilità umana in favore di una gloria annacquata e fulminea. Rhaim è al contempo eroico ed inetto, trasparente e bugiardo, vittima e carnefice, restituito da una recitazione che sa costudire l’intenzione, renderla ambigua, sfuggente. Farhadi delinea un’individuo evasivo, incerto, mai pienamente consapevole, mai totalmente ingenuo, caratterizzando in modo credibile un tratto costitutivo e peculiare del nostro tempo. Rhaim viene risucchiato nella grande parata delle immagini televisive, raggirato da un sistema che glorifica con la stessa facilità con cui condanna, cerca un eroe con la stessa urgenza con cui cerca un colpevole da accusare.

Ma è il confronto con la società più prossima a condannare Rhaim in partenza, prima ancora della veicolazione mediatica della sua storia, come a dire che alla base di questa deformazione comunicativa ci sia proprio una disfunzione della relazione tra singolo e collettività. La verità originaria sfuma, si spezza, allo stesso modo con cui, la macchina da presa di Farhadi spesso stacca un frammento temporale nei suoi piani sequenza nello spazio urbano, omettendo una parte di vita. Da una parte, la macchina da presa racconta Rhaim come vittima arbitraria di un sistema, dall’altra i racconti nel racconto del personaggio Rhaim lo restituiscono indiscriminatamente come eroe e poi come carnefice.
In questo senso, Rhaim è un protagonista rivoluzionario in termini cinematografici, perché recalcitrante ad accogliere lo spettatore, a far si che si fidi totalmente di lui. Paradossalmente, l’effetto è quello di profonda immedesimazione, non tanto nel protagonista, quanto in una collettività in balìa di sé stessa e della sua diffidenza verso l’altro. Attorno a lui, oltre ai media, sono rappresentate le parti sociali in campo: le istituzioni carceraria, la borghesia dell’associazione benefica, i dimenticati del carcere e le storie sfuggenti dei co-protagonisti, ma il sostrato delle relazioni tra loro, dentro la narrazione, è sempre lo stesso: il sospetto, l’assenza di controllo su ciò che non si conosce dell’altro.

A sostegno di questo concetto, come ne Il Cliente e About Elly, un personaggio assente diventerà l’ossessione del protagonista, un fuoricampo scomodo perennemente evocato, l’oggetto del desiderio e insieme il viaggio stesso dell’eroe. Come, quello snodo narrativo cruciale in anticipo sul film, Farhadi lo esclude dal racconto, fa del film un’unità parabolica, che questiona, interroga e in qualche modo infastidisce lo spettatore.
Un eroe, Grand Prix della Giuria alla 74a edizione del Festival di Cannes, è un film che parla di un bivio esistenziale, della facilità con cui si è retti e criminosi allo stesso tempo, in cui si è mera realtà e al contempo racconto. Ha il merito di saper coltivare il dubbio dello spettatore, mai autorizzato a farsi trasportare passivamente dalla narrazione, e a rendere questo dubbio una riflessione sul nostro essere individui privati e al contempo cittadini. Rhaim, più che un anti-eroe, è un non-eroe, nel suo non rendersi rappresentabile o coerentemente afferrabile, nel suo non essere a prova di storytelling. Questo suo dato umano così realista è anche la negazione stessa della messa in scena del mondo e della sua pretesa di oggettività. È una caratterizzazione narrativa sì, ma suona come una presa di posizione politica sul ruolo del cinema e delle arti, nel mondo mediato di oggi.
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