
L’uomo invisibile – Camere di sorveglianza nell’horror Blumhouse
Trasponendo il romanzo di H.G.Wells, Leigh Whannell della scuderia Blumhouse dirige un inquietante e algido horror che riporta il MonsterVerse ai fasti di un tempo. L’uomo invisibile questa volta mette al centro la figura di Cecilia (Elisabeth Moss), vittima di una relazione abusiva con il luminare dell’ottica Adrian. È lei però la protagonista e il punto di vista attorno al quale il film si dispiega: stanca degli abusi fisici e psicologici, Cecile decide di scappare dal suo fidanzato e aguzzino e si rifugia a casa di un amico. La donna non riesce però a trovare tranquillità finché non le giunge la notizia del suicidio dell’ex fidanzato. Ma la persecuzione da parte dell’uomo non termina con la sua morte: la ragazza si accorge di una presenza invisibile che continua a tormentarla.
Senz’altro ci troviamo di fronte ad un film che più che mettere in scena le dinamiche di una relazione violenta, si concentra sugli effetti che un rapporto di questo tipo può avere nel tempo. Non è solo la violenza fisica e l’abuso di Adrian su Cecile, quanto il cosiddetto fenomeno del gaslighting il vero nodo del film. Si tratta di una forma di violenza psicologica che prende il nome proprio da un’opera teatrale dal titolo Gaslight, portata poi al cinema in due omonimi film del 1940 e 1944, con qualche eco anche in A letto con il nemico, dramma sentimentale con Julia Roberts su un’analoga persecuzione. Eppure servendosi del genere, Whannell (sceneggiatore di Saw e regista di Insidious 3 e Upgrade) riesce a raccontare la tragedia di una donna caduta nella morsa di un uomo maniaco del controllo e totalmente perverso. Mentre nella versione di Paul Verhoeven (L’uomo senza ombra) assistiamo all’escalation di follia e violenza dello scienziato Sebastian Caine, come accade anche nel classico Universal con Claude Rains, diretto da James Whale, questo uomo invisibile è un villain sin dall’inizio. Adrian si configura già dai primi minuti del film come pericoloso, l’uomo da cui fuggire, e lo spettatore è immediatamente dalla parte di Cee e della sua traumatica vicenda. E così assumiamo il suo punto di vista: quando tutti credono che Cecilia stia mentendo, noi sappiamo che non è così perché vediamo, come la protagonista, la minaccia invisibile.
Il film di Leigh Whannell è costruito su una prospettiva diversa da tutti i remake fatti fino a oggi, l’uomo invisibile del titolo è solo il nemico che ci guarda, mentre siamo sempre con la protagonista e con le conseguenze che quella relazione le ha lasciato. Non a caso la tuta che rende Adrian incorporeo – e perciò un mostro senza volto – infatti è costituita da una serie di piccole lenti. Cecile durante la sua storia con Adrian, veniva letteralmente dominata in tutto ciò che faceva, pensava, sentiva. Oltre al controllo ottico attraverso le telecamere posizionate nella casa, l’abilità dell’uomo era pilotare ogni singola parte di Cee, tanto da far dubitare, a chi le stava intorno, della sua salute mentale, così da attirarla nuovamente a sé con il ricatto.
L’uomo invisibile è anche un film sulla tracciabilità nel mondo contemporaneo, tema che l’horror ha toccato già nel superbo It follows di David Robert Mitchell, sull’essere costantemente “sorvegliati” attraverso i dispositivi, sullo screening a cui siamo sottoposti quotidianamente accettando cookies dai siti, registrando la nostra posizione su Instagram, sull’eccessivo setacciare ogni individuo e il suo essere sempre sotto l’occhio di qualcuno, qualcosa. Il ritmo lento, la freddezza di una regia austera anche nella composizione degli spazi, come la casa dal design minimale, rende altissima la tensione di un film che amalgama sapientemente genere e discorso sociale/politico, come spesso la storia del genere ha saputo fare. Whannel insieme a Blumhouse: garanzia assicurata.
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