
The Gentlemen – La malavita è borghese
Tra i tanti film che in questo 2020 hanno dovuto sopperire la mancata uscita cinematografica affidandosi alla diffusione tramite piattaforma c’è anche The Gentlemen di Guy Ritchie, approdato in Italia il 4 dicembre attraverso Amazon Prime dopo quasi un anno dalla sua uscita nella sale americane, dove invece a gennaio era riuscito a deliziare il pubblico, ottenendo reazioni positive. E non potrebbero essere diverse per quella che è considerata una rinascita per Guy Ritchie, regista e scrittore di questo gangster movie dai toni comici, che mette da parte le delusioni di un ventennio altalenante per tornare su una linea stilistica che gli è congeniale, la stessa che ha ispirato prodotti come Snatch e Lock & Stock e che firma un film che si conferma pienamente post-moderno e quasi tarantiniano.

The Gentlemen, vistosamente politicamente scorretto, mette d’accordo tutti su diversi aspetti: la scrittura è brillante ed effervescente, è precisa e non lascia nulla al caso, ci intrattiene per un’ora e cinquantatre minuti con un ritmo sempre alto che ci impedisce di distrarci o annoiarci, grazie a trovate deliranti o assurde che rasentano la genialità, senza fortunatamente sfociare nel demenziale. E bisogna riconoscere il grande merito, perché non è facile maneggiare coltivazioni di marijuana, gangster benvestiti e macchinoni: il trash è dietro l’angolo e Guy Ritchie evita il rischio, sfiorandolo appena ma solo per mettersi con grazia in carreggiata e dare sfoggio della sua bravura.

La scrittura precisa e centrata investe soprattutto i personaggi, che hanno tutto il potenziale per diventare iconici, grazie anche al sostegno di un cast stellare decisamente all’altezza della situazione, che si appropria dei caratteri e, divertendosi, li restituisce in un modo decisamente riuscito e fresco. Questa coralità pittoresca vede avvicendarsi sulla scena Mattew McConaughey, che dall’alto della sua avvenenza ci conferma le sue doti nel ruolo di Mickey Pearson, potente trafficante di marijuana ormai imborghesitosi e che, stufo della sua attività, decide di vendere il proprio impero; il suo braccio destro nonché guardia del corpo è Raymond (Charlie Hunnman), un hipster che soffre di un leggero disturbo ossessivo compulsivo. Colin Farrell è “Coach”, un allenatore alquanto materno, perennemente vestito in coordinato alla sua squadra di ragazzi-ballerini e il ricchissimo Matthew Berger (Jeremy Strong) è un facoltoso acquirente e lezioso saputello che fa dello stile un mantra: tutti accostamenti già di per sé comici.

Ma il personaggio che attira di più l’attenzione è Fletcher, magnificamente interpretato da Hugh Grant. L’attore londinese veste i panni di un istrionico investigatore privato che minaccia di far uscire verità scomode su Mickey ed è il motore dell’intero racconto, che prende forma davanti ai nostri occhi grazie alla sua performance. Sì, perché Fletcher è prima di tutto un performer compiaciuto del suo ego e del suo ruolo di narratore: quello che il personaggio allestisce è un teatrino all’interno di film, con tanto di sceneggiatura (che è disposto a vendere al migliore offerente) e doppiaggio, in un’operazione metacinematografica accompagnata e confermata dalle frequenti citazioni. Proprio come il regista, si diverte a giocare con lo spettatore (e con Raymond) offrendoci e sorprendendoci con un materiale narrativo in accumulo che rischia di debordare da un momento con l’altro ma che invece viene magistralmente articolato e contenuto.

Il Fletcher sceneggiatore/Guy Ritchie prende sfacciatamente in giro l’interlocutore (e qualche volta noi con lui) in un intento di dialogo costante con lo spettatore, accompagnandolo all’interno della narrazione e includendolo nel suo universo: ce lo suggeriscono i frequenti incisi extradiegetici come i sottotitoli riferiti a slang forse inventati e quindi altrimenti incomprensibili, o le divertenti indicazioni scritte con lo scopo di chiarire il discorso. Quello che fa il regista è aiutarci a comprendere il mondo che lui stesso ha creato e noi, dal nostro subconscio, non possiamo fare altro che goderne, secondo logiche post-moderne che già conosciamo.
In definitiva non vediamo nulla di nuovo, ma un ritorno alle origini fatto con questa classe va celebrato. E poi, quanto è liberatorio finire il 2020 con un’ironica risata?
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