
Intervista a Pietro Ruffo | Quando l’arte contemporanea incontra l’alta moda
Tra le ultime collezioni risparmiate da una prima interamente digitale troviamo la Cruise 2020/21 di Dior, che ha sfilato a Lecce nei mesi estivi. Abbiamo intervistato Pietro Ruffo, l’artista che ha collaborato con la maison francese Dior per l’evento, e che ci racconta di natura e lusso, di opinione pubblica e sostenibilità.
Anche il luxury subisce l’effetto del “remoto” obbligatorio: annullati gli exhibition show, si è passati ai reel e allo storytelling in digitale, in uno sforzo comunicativo che nello stato di cose è ancora più saliente. È accaduto anche alla maison Dior che, un soffio prima dell’ondata restrittiva invernale, ha potuto scegliere la città di Lecce come cornice edenica per la graffiante collezione Cruise 2021.
Maria Grazia Chiuri, creative director della casa di Avenue Montaigne, è solita combinare la fedeltà ai principi della casa francese con le suggestioni personali: l’iniziativa in terra salentina ha rappresentato il ritorno alla casa e alle radici nerborute che sopravvivono al tempo più ostile. Nell’atmosfera abbacinante della luce che si riflette sulla pietra sabbiosa, la collezione ha mostrato la materialità dell’artigianato locale, fedele alla storia della terra dei due Mari, in una performance di dialogo tra l’evento e la città. Lo show, progettato per mesi e riadattato per i parametri di sicurezza estivi, è stato concepito come una sorta di grande festa di paese: come in un preludio di Mascagni, nella piazza adorna di luci hanno riecheggiato i tamburelli, in una danza che mantiene una punta nella leggerezza eterea e il tacco nel realismo verghiano.

Marinella Senatore ha scelto per la scenografia le luminarie Parisi, emblema di atemporalità votiva ai Santi, inserendovi però un monito preciso: “strenght and dignity”, trentamila lampadine a LED a omaggiare la figura femminile e il suo inserimento nella storia sociale. Paolo Buonvino, maestro concertatore, ha recuperato i moti musicali della tradizionale “taranta”, coreografata da Sharone Eyal e interpretata dal corpo di ballo che ne mantiene l’estasi di un desiderio quasi tagliente, e il grido di dolore che riempie i movimenti a tratti soffocati e poi esplosivi.
Il crinale tra sacro e profano viene percorso in ogni dettaglio della Collezione: Agostino Branca, Maestro ceramista, ispirato dalla stessa seduzione che Monsieur Dior serbava per i tarocchi, intreccia i motivi floreali al disegno di personaggi che potrebbero abitare il Castello dei destini incrociati di calviniana memoria. La stessa perizia si rintraccia nell’antica sapienza tessile della Le Costantine – Fondazione, dedita al recupero della disciplina delle tabacchine che “amando e cantando” si immergevano nei campi di grano; dalla vita nei campi alla manualità sapiente del tombolo, manifattura di rara fragilità e innata bellezza con cui Marilena Sparasci ha ricamato fiori e farfalle sugli abiti. Pepli avvolgenti e sinuosi si sono piegati al vento salentino, le corde allacciate sui busti stretti, le cinture di cuoio resistenti al tempo e alla fatica; sui pizzi, spighe e narcisi di buon augurio, in cui le nuances grezze della vita campestre si sciolgono nel dedalo barocco del ricamo; il lino e la seta a giocarsi la grazia e la resistenza spartana.

Tutto questo è stato possibile anche grazie al sodalizio tra Maria Grazia Chiuri e Pietro Ruffo, artista che per Dior disegna dal 2017, anno della collezione presentata all’Hotel National des Invalides di Parigi. Ruffo, laureato in Architettura a Roma e specializzatosi alla Columbia University, per la collezione ha indagato il rapporto organico tra l’uomo e la natura, intesa non soltanto come linfa vitale che scorre nell’ecosistema abitato da piante e insetti, ma come cornice celeste che avvolge e guida le esistenze terrene. Nell’intervista, ci racconta la genesi della collezione e lo studio con cui ha approfondito, sotto il profilo teoretico, la sovrapposizione tra le geometrie dei paesaggi naturali e di quelli celesti, la persistenza del lusso dopo una pandemia, il ruolo dell’artista contemporaneo per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e gli scenari che si presentano alle grandi case di moda chiamate a fronteggiare la sfida della sostenibilità.

Quella che stiamo vivendo è stata definita dal premio Nobel Paul Cruzen “l’era dell’Antropocene”: si tratterebbe in sostanza di un lungo momento della vita sulla Terra che vede l’impronta ecologica umana aumentare in modo incontrollato. In molti dei tuoi lavori, l’ambiente naturale e gli organismi viventi sono spesso fonte di ispirazione, e penso ad esempio al Campo Millefiori che hai disegnato per la Collezione Cruise 2021. Quanto è difficile per un artista contemporaneo riportare la Natura al centro della propria creazione e soprattutto entrare in sintonia con lo spettatore urbanizzato? È possibile tramite le opere d’arte ristabilire una connessione con i cicli bucolici?
L’Antropocene è un tema che mi affascina: proprio in questo periodo sto leggendo Il pianeta umano di S. Lewis e M. Maslin, e prima ancora, come molti altri, sono rimasto sedotto da Harari (ndr. Yuval Noah Harari, autore di 21 lezioni per il XXI secolo, 2019; Homo deus, 2018; Sapiens. Da animali a dèi, 2017) e da Diamond (ndr. Jared Diamond, autore di Crisi, come rinascono le nazioni, 2019; Armi, acciaio e malattie, 2014). Insomma, la storia dell’uomo è sempre stata centrale nel mio lavoro, ma per fortuna la storia dell’uomo è solo una piccola frazione rispetto alla storia della Terra. Da quando abbiamo messo piede su questo pianeta siamo stati una specie devastatrice, ma comunque non siamo così forti per indebolirlo.
Direi che come specie siamo l’unica che non ha mai vissuto in armonia con lo spazio naturale che la circonda; abbiamo sin da subito causato l’80% dell’estinzione dei mammiferi e, non contenti, abbiamo causato il genocidio di tutte le altre specie di ominidi presenti. Quindi non credo molto alla favola della connessione dell’uomo con la natura. L’unica cosa che ci può interessare siamo noi stessi. Il nostro egoismo ci ha permesso di piegare a nostro piacimento l’ambiente che ci circonda, per renderlo più adatto alle nostre debolezze. Quando vedo la natura vedo l’uomo, non riesco a scindere le due cose, e il termine “Antropocene” non è altro che un’altra visione antropocentrica delle ere geologiche.
Temo che come specie non siamo così intelligenti, non possiamo neanche definirci una specie parassitaria, perché almeno quelle una volta causata la morte dell’organismo ospitante possono migrare su un altro supporto. Stiamo giusto causando la fine della nostra specie su questo pianeta, ma di certo non abbiamo la forza di causare la morte del pianeta stesso che ha delle forze talmente più grandi di noi che andrà avanti per altri miliardi di anni, fino a che la nostra stella non esploderà e non lo ingloberà.
Rispetto al disegno di mille fiori che ho realizzato per Dior, non scomoderei quindi né le ere geologiche né i cicli della natura, bensì una passione nella visione e nel disegnare piante e fiori, forme, queste, davvero perfette, e immaginare di donare questo mazzo di fiori alla grazia infinita delle donne.
Le tue creazioni combinano, attraverso un accurato processo di stratificazione, la delicatezza della composizione con la forza del messaggio. La tua formazione e le tue inclinazioni personali ti hanno infatti spesso portato a mappare il territorio per una maggiore comprensione dei bisogni e dei processi sociali in atto. In passato, ad esempio, ti sei occupato del tema delicato della libertà che oggi, nello “stato d’eccezione”, torna più attuale che mai. In questo senso, quanto degli affari generali del Paese e delle questioni internazionali fluiscono nelle tue creazioni: possiamo parlare di manifesti politici nel senso che trattano il tema del potere e dei condizionamenti?
Penso, molto banalmente, che l’artista debba essere uno specchio della società. Forse questo specchio è concavo, forse è convesso, ma è molto riflettente. La storia dell’arte è lo strumento maggiore per conoscere la storia dell’uomo, e la storia del potere.
In qualche modo quello che ci circonda entra potentemente nel mio lavoro, anche se mediato sempre da un filtro, che è la Storia: non sono un fotoreporter di guerra, non mostro l’attualità ma bensì mi interrogo su dei processi storici che si ripetono nei secoli e che spesso non abbiamo avuto la maturità per affrontare e quindi si ripetono e si ripetono e si ripetono, come un disco incantato. Ahimè, il tema della libertà è proprio uno di questi, come quello delle migrazioni o dell’autodifesa o delle rivoluzioni, che sono poi gli argomenti sui quali mi interrogo nei miei lavori.

Non è la prima volta che collabori con Dior. Nel 2017 hai ridisegnato il mondo in una sorta di Eden che ristabilisce gli equilibri tra i continenti; al ballo veneziano di Palazzo Tiepolo, hai pensato ai costumi come a serpentine della volta celeste; a Lecce sei tornato a combinare il sacro e il profano, il misticismo dei segni e la concretezza della ruralità. Lavorare per una casa di moda ha condizionato la tua produzione oppure si è stabilita una sorta di affinità elettiva tra la direzione creativa e le tue personali suggestioni?
L’affinità con Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica di Dior femme, è forte e intensa. Lei è una donna estremamente curiosa e aperta. I sogni più incredibili con lei si sono trasformati in teatri del mondo, in mappe stellari usate come vestiti per orientarsi nella notte o, come nel caso dell’ultima cruise presentata a Lecce, in una cornucopia di influenze tra astri, stelle, religione, magia. Ci siamo ispirati molto agli studi dell’antropologo Ernesto De Martino che ci ha fatto capire che la divisione fra queste credenze è fittizia. Il tutto poi frullato e condito da un po’ di incoscienza, che quando si fa questo lavoro non guasta.
I tuoi disegni per l’ultima collezione sono ispirati alla relazione umana con il mondo naturale, ma sono stati destinati all’interazione tra i corpi: la sfilata è di fatto una performance, e l’evento in piazza Duomo ha combinato il canto alla danza, rendendola un evento simil-teatrale. Dopo il confinamento forzato che abbiamo conosciuto, rinunciare a presentare la collezione è stato un atto di coraggio: allo stesso modo, le figure che hai concepito, prendendo vita sui corpi reali, hanno per un attimo arginato la stasi della paura contro ciò che non si vede. In un periodo in cui parlare di lusso sembra quasi un male antistorico, pensi sia il compito dell’artista riportare la percezione della bellezza nel momento cupo che ne ha più bisogno?
Il lusso non è un male antistorico! Se facciamo un piccolo sforzo di umiltà ci rendiamo conto che la storia dell’arte è strettamente legata alla storia del potere e dell’economia. I centri di potere sono i centri dove si è creata sempre la migliore arte. Leonardo non lavorava in una palude della Sassonia, bensì prima per i Medici, poi per gli Sforza e poi per il re di Francia, e cosa faceva per loro? Disegnava armi, oppure organizzava feste strabilianti. Per fortuna aveva anche del tempo libero e delle risorse fornite da questi mecenati per pensare a delle invenzioni incredibili, oltre che a dei quadri meravigliosi. Vogliamo eliminare il lusso, va bene, però prima pensiamo a chi può fare da mecenate per gli artisti oggi. I papi? I Medici? Oppure i Presidenti della Repubblica? Posso rispondere con sicurezza tre volte: no, no, no. Oggi sono le case di moda. Il loro fine mi è indifferente, perché danno all’artista la possibilità di avverare i tuoi sogni più incredibili, e di alimentare la cultura, e questo può essere solo un merito.
Per quanto riguarda il tema della bellezza, sono contento che usi questa parola, che dalla Seconda Guerra Mondiale in poi è stata cancellata dal dizionario dell’arte contemporanea, come fosse un tabù di cui non si può parlare, o qualcosa che non si può giudicare. La bellezza esiste, può essere un valore oggettivo e può essere creata dall’uomo… e allora perché non farci invadere da tutta la bellezza possibile? E magari senza sentirci troppo in colpa.

Angelo Flaccaro ha scritto su Vogue #839 che «a chi fa un bel vestito non sarebbe richiesto altro che fare un bel vestito e gestire la baracca con coscienza di essere umano degno del titolo». Oggi, tuttavia, la moda non può ignorare un tema in sospeso, sotto lo sguardo vigile di un’opinione pubblica incalzante: è quello della sostenibilità. L’alta moda dovrebbe forse rallentare i ritmi di produzione e allungare il processo creativo per essere più sostenibile?
Non credo nella dilatazione del processo creativo, non credo nel rallentamento. Durante la quarantena con Dior abbiamo lavorato incessantemente, senza sosta, senza notti né Pasque né domeniche. La pressione aiuta la creatività, o almeno la mia.
Inventare con loro più di 450 vestiti è stato soprattutto un modo per far poi lavorare piccolissime aziende famigliari che producono i loro prodotti.
Noi umani non siamo mai stati sostenibili, e forse continueremo a comportarci nello stesso modo nel quale ci comportiamo causando a breve la fine della nostra specie. Temo che solo in quel momento potremo essere “sostenibili” e in “equilibrio” con la Natura.
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