
Small Axe – Steve McQueen omaggia la comunità nera di Londra
Razzismo. Soprusi. Abusi di potere. La forza bruta delle istituzioni contro la popolazione di colore. Tutti termini con i quali la Storia ha sempre descritto un lato del sottostrato legislativo ed amministrativo della società americana. L’America, la cui storia della fondazione è strettamente intrecciata con quella della schiavitù, è in prima fila sul banco degli imputati per il processo contro i pregiudizi razziali. Tuttavia, l’intolleranza nei confronti della diversità culturale è radicata nelle società di tutto il mondo. Ci sono troppe storie che ad oggi non sono conosciute. Storie che meritano di essere raccontate affinché non siano solo i movimenti attivisti, come l’attuale Black Lives Metter, a lottare per l’uguaglianza interraziale; affinché ogni individuo inviti se stesso a riconoscere il diritto alla libertà di ogni essere umano, consapevole degli episodi storici in cui tale diritto è stato negato ad una parte della società a causa del colore della propria pelle.

Steve McQueen (premio Oscar per 12 anni schiavo) sente l’esigenza di raccontare alcune di queste vicende. Storie vere che, da un lato, mirano a sensibilizzare i popoli di ogni paese alle tematiche, più che mai attuali, della lotta al razzismo; dall’altro, servono a chi le ha vissute come un riconoscimento delle proprie, seppur magari piccole, vittorie così come del proprio coraggio anche a fronte di alcune sconfitte. Small Axe (qui il trailer) è la serie antologica del regista britannico che affronta e scardina diverse tematiche legate al razzismo istituzionale e ai pregiudizi sociali cui sono soggette le minoranze etniche, disponibile su Amazon Prime dal 20 novembre 2020. Si diceva in apertura che gli episodi storici legati alle battaglie razziali non trovano terreno fertile solo in America. McQueen sceglie così di dar voce alla comunità caraibica di Londra, raccontando alcune storie avvenute tra il 1969 e il 1982 che non possono essere ignorate.
La complessità delle trame, la fittezza e l’articolazione dell’intreccio e, in alcuni casi, la durata degli episodi fa sì che ognuno di essi funzioni come un film. Potrebbe essere definita una serie antologica di film. Nonostante l’autonomia di cui gode ogni storia, queste opere compongono un collettivo, sono strettamente legate dallo stesso sentimento, un’unica ideologia e la medesima protesta. Storie diverse, ma circoscritte all’interno di un solo nucleo monotematico.
Tre dei cinque film di Small Axe sono stati presentati alla Festa del Cinema di Roma, dopo che due di essi avevano partecipato alla Selezione Ufficiale di Cannes 2020. In occasione dell’evento romano, McQueen ha ricevuto un Premio alla Carriera, ed ha avuto modo di parlare del suo ultimo lavoro. Small Axe è un progetto nato dieci anni fa e racconta alcune storie realmente accadute nell’Inghilterra tra gli anni sessanta e ottanta. I personaggi dei film riportano i veri nomi degli uomini e delle donne coinvolte nelle vicende. Leroy Logan, la cui storia è raccontata nel primo dei film (Red, White and Blue), ha presenziato sul set durante le riprese nonostante la difficoltà provata nell’assistere ad alcuni dei momenti più dolorosi del suo passato.

Red, White and Blue è quindi la storia di Leroy Logan, un giovane uomo di colore dapprima ricercatore scientifico, che decide di diventare poliziotto per poter cambiare il sistema dall’interno. La difficoltà sta nel fatto che nella Londra anni ottanta le persone di colore non svolgevano questo mestiere. Anzi, erano vittime di abusi di potere e violenze fisiche da parte delle forze dell’ordine. Azioni causate da un razzismo becero che fonda le proprie motivazioni sulla paura del diverso e nell’apparente ed animalesca urgenza di contrassegnare il proprio territorio. Logan, interpretato da un abile John Boyega, si troverà ben presto sospeso in un limbo di rancori ed ostilità. Da un lato, i suoi colleghi in polizia gli riservano trattamenti razziali, non lo accettano e rifiutano di lavorare con lui; dall’altro, i membri della sua comunità lo ripudiano in quanto traditore, perché il poliziotto è un lavoro da bianchi contro cui la popolazione nera può solo lottare.
Una recitazione posata e tangibile quella di Boyega, attraverso la quale Logan si presenta come un paladino della lotta al razzismo, le cui intenzioni, tuttavia, eludono uno scontro frontale tra fazioni aspirando invece ad infiltrarsi all’interno del problema per poter cambiare la società dalle basi. La regia di McQueen penetra le espressioni oggettive di Boyega e pone spesso la sua figura al centro dell’inquadratura collocando in primo piano i sentimenti del personaggio. Leroy Logan non è solo il protagonista di questo film, ma un uomo che nella realtà vedrà sullo schermo il dramma personale della sua esperienza e riconoscerà nelle immagini della sua vita il senso di giustizia delle sue scelte. Per McQueen il centro del racconto è quell’uomo. Un uomo che rappresenta una comunità, una storia che le rappresenta tutte, azioni che meritano di ricevere una voce.

Mangrove è il film più complesso di quelli presentati a Roma. Con una durata di quasi due ore, racconta la storia dei Mangrove Nine, gruppo di nove persone di colore che nel 1968 venne arrestato con l’accusa di aver causato violenti scontri con la polizia durante una protesta. Questi attivisti radicali erano scesi in strada per manifestare pacificamente contro la polizia che, ormai da tempo, si scagliava con veemenza contro il Mangrove, locale punto di riferimento per la comunità nera del quartiere. Tra i Mangrove Nine c’era anche il proprietario del ristorante Frank Cricholow (interpretato da Shaun Parkes) e Altheia Jones-LaCointe, ovvero la rappresentate del gruppo attivista Black Panther (curioso il fatto che l’attrice che interpreta Altheia sia proprio Letitia Wright, uno dei personaggi principali del Black Panther del Marvel Cinematic Universe). La storia del processo a questo giovane gruppo è nota per essere il primo caso in cui in tribunale sia stato riconosciuto un atteggiamento di razzismo delle istituzioni nei confronti della comunità nera. Mangrove sembra il film più eclettico dei tre: all’interno troviamo il sentimento di lotta, l’intolleranza verso il razzismo, la voglia di cambiare le cose ma allo stesso tempo vi si scorge anche il folklore delle comunità nere, la nostalgia verso delle tradizioni legate alla propria terra, il desiderio di avere un proprio spazio in cui essere se stessi, fieri delle proprie origini, senza la necessità di uniformarsi ad una società che non accetta la diversità. In Mangrove troviamo la musica, la danza, l’amore per il prossimo, il senso di unione di una collettività. I primi frame del film ci presentano il protagonista e la strada: un ambiente dai toni freddi che fungerà come teatro di alcuni episodi cruciali della storia. Proprio per strada avvengono i peggiori spettacoli di violenza da parte della polizia, una costante persecuzione per uomini e donne nere che non possono sentirsi liberi di camminare nel proprio quartiere. Minacciata da quelle persone che dovrebbero proteggerla, la comunità nera di Notting Hill si radunava nel locale di Cricholow, il quale, proprio per questo motivo, venne ingiustamente preso di mira da un fanatico agente di polizia.
Dopo l’arresto il film cambia rotta sfociando nel genere giudiziario. McQueen ha dedicato molto tempo alla rappresentazione del processo che nella realtà è durato 55 giorni. L’articolazione dettagliata degli eventi avvenuti in quell’aula di tribunale fa sì che il film arrivi ad esasperare il tema, rendendo allo spettatore tutto il sentimento di angoscia legato alla vicenda. La qualità principale di Mangrove risiede nella fotografia e in alcune scelte di regia ad essa legate: alla freddezza dei colori della fotografia urbana si contrappongono i toni caldi degli interni del Mangrove; dalla peculiarità delle tonalità cromatiche alla sgranatura che restituisce l’immagine a quel 1970 in cui avvennero i fatti. La regia, invece, attraversa e penetra i primi piani, in particolar modo nei momenti di massima tensione. Attraverso frequenti piani d’ascolto e progressivi ma lenti avvicinamenti ai volti dei personaggi, McQueen restituisce allo spettatore il senso d’ansia, di attesa, di sgomento o di sorpresa delle reazioni di ogni individuo. Ancora più efficaci le lunghe inquadrature che seguono alcune delle scene delle violenze immotivate della polizia: dopo il caos giungono immagini statiche che attraverso campi apparentemente vuoti rappresentano tutta la dinamicità delle emozioni. In altre parole, McQueen articola delle immagini che funzionano come una pausa, uno spazio temporale in cui lo spettatore è invitato alla riflessione.

Lovers Rock, infine, si distacca dai due titoli precedenti: il più breve dei tre smette di funzionare come un discorso di protesta per divenire un omaggio totale alla memoria della comunità nera britannica degli anni ottanta. Non vengono presentati personaggi reali e storie vere. I protagonisti sono le usanze, il folklore ed i sentimenti umani. Un elogio alle tradizioni, in particolare alla musica e alla danza. In quegli anni le persone di colore non avevano il permesso di frequentare le discoteche, per cui venivano organizzate per lo più feste in case private. Il film non presenta particolari intrecci di trama, non vi è un conflitto che traini la storia, ma sporadici momenti di tensione. Vengono presentati l’organizzazione e lo svolgimento di una festa, durante la quale un ragazzo ed una ragazza si incontrano e innamorano. La regia si diverte a celebrare un momento di tripudio strettamente legato ai costumi e alle abitudini del popolo afrobritannico: la festa diviene così un pretesto per arricchire la colonna sonora del film con musiche reggae, soul, blues e losers rock (un sottogenere delle reggae), e contemporaneamente elogiare il divertimento, la danza, i movimenti dei corpi. McQueen frantuma le scene di ballo in minuziose inquadrature, dettagli delle parti del corpo, dei gesti, del contatto fisico tra danzatori, servendosi di uno slow motion capace di marcare la sensualità di ogni atto, la delicatezza del movimento, l’estasi della danza. Ci sono sequenze in cui il film sembra trasformarsi in un video musicale, dove McQueen interrompe la narrazione per comunicare attraverso immagini composte da soli moti corporei e musicali.
Per concludere, Small Axe è una serie che McQueen ha sentito di dover creare per ovviare all’esigenza personale di raccontare e rendere omaggio ad una parte troppo spesso ignorata della storia recente. Una storia composta da tante storie, sicuramente troppe per essere conosciute tutte: il regista ha provato a raccontarne qualcuna, scegliendo strategicamente di dar vita ad una serie antologica piuttosto che concentrandosi su un solo gruppo di protagonisti. Il credo di McQueen nei confronti dell’attuale causa anti-razziale e il consapevole tributo alla memoria della popolazione nera latina sono non a caso già presenti nel titolo dell’opera: Small Axe è il titolo di una canzone di Bob Marley del 1973, le cui parole costituiscono un invito per il popolo a lottare contro gli abusi del potere istituzionale.
“Se voi siete un grande albero, noi siamo la piccola ascia affilata pronta ad abbattervi”
Bob Marley
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