
Still-Lifes di Filippo Ticozzi – La ricerca dell’eterno sul corpo e nell’immagine
C’è una ricerca che sostanzia le immagini, setaccia gli spazi dell’inquadratura e i volumi che la occupano, orienta il montaggio. Una costante del cinema di Filippo Ticozzi, da Moo Ya a The Secret Sharer, passando per Inseguire il vento. Il dispositivo medita nel silenzio e sonda i corpi, ne vaglia i linguaggi segreti incisi sull’epidermide ruvida, guardando da vicino la carne morta (Inseguire il vento), deturpata o cicatrizzata (The Secret Sharer), e ora pure quella viva e immobilizzata di Still-Lifes, presentato finalmente nella cornice festivaliera del Doker Moscow 2020.
Davide e Lucio Pat non praticano imbalsamazioni né indossano protesi, ma vivono la loro esperienza di coppia nel segno del BDSM. La pratica del bondage apre il film con le sequenze bellissime del corpo di Lucio legato e sospeso per aria a testa in giù, che rotea lentamente, dapprima osservato a distanza e poi col focus sul volto arrossato, teso a sottrarsi a smorfie di dolore. Non è l’inizio di una qualche caustica storia d’amore, né una messa in vetrina di sequenze documentaristiche sulle possibili contorsioni del corpo e sulla disciplina alla sottomissione e dominazione. Dicevamo invece della ricerca, messa in atto tanto all’interno dell’immagine, con Davide e Lucio Pat, quanto nel processo della sua composizione, con Ticozzi.
Spostandosi dall’apertura in esterna e dall’atto praticato del bondage, la camera si ricolloca all’incirca per tutta la durata restante del film nell’ambiente domestico abitato dalla coppia. I grandangoli aprono la vista sulle stanze dell’esercizio del bondage, sul sistema di architravi che ne occupano per intero il soffitto, sui primi piani delle chincaglie e dell’arredamento, tra poster esplicativi delle posizioni da adattare e oggetti di piacere delle pratiche sessuali più estreme. Qui, un silenzio agglutinante distilla le parole in scambi di battute appena accennati e saltuari. Ed ecco la ricerca. La rarefazione della parola diviene condizione necessaria per un’immagine da sé parlante, l’immagine violenta di Nancy, che nell’assestare un colpo allo spettatore in inquadrature fisse, silenziose appunto, meditabonde, lo ingaggia poi nella restituzione di un’impressione, di una lettura.
L’immagine domanda allo spettatore di prendere coscienza di un atto d’indagine. Anzitutto, suggerisce informazioni più o meno elementari sulla quotidianità e lo stile di vita di Davide e Lucio Pat mediante gli scrolling compulsivi delle pagine Instagram, la messa in vendita dei propri video erotici su piattaforme dedicate, il dettaglio sulle figure nude e sofferenti degli hentai, ma pure i pomeriggi a seguire il telegiornale e la cura di Lucio Pat riservata ai suoi gatti.

Ticozzi associa così, nel montaggio, sequenze che pervengono a una descrizione di questa quotidianità in forma sghemba e disordinata, perché il suo atto d’indagare gli spazi deve fare i conti con una realtà altresì disordinata e oscura. Il suo dispositivo pesca al buio tra i frammenti di corpi e oggetti tangibili, sostenuto dalle brevi illuminazioni nate da sguardi vacui – quelli di Lucio Pat, tantissimi –, da singulti di tenerezza, dalla percezione di un’emotività costretta entro le mura domestiche. Detriti, materia carsica da raccogliere e ricollocare in una ratio visiva. Fuori delle citazioni (accadeva spesso con la protagonista di Inseguire il vento), delle didascalie e spiegazioni, Ticozzi si serve di una personalissima scrittura afasica per sole immagini, attraverso la quale la propria indagine pian piano si compone: il mistero e il desiderio ultimo dell’uomo di farsi roccia (dalle note di regia), di rendersi eterno nell’immobilità del corpo e della mente, di svestirsi del dolore e dell’emotività in un annichilimento che non schiacci alla terra, ma che aneli a una trascendenza.
Forse la disciplina, la ricerca del bondage non può creare le condizioni di una still life; forse ne è semplicemente ostensione, una figurazione. Ma come accadeva per i frammenti d’immagine e i suoni vibranti che Ticozzi associava alla protesi della gamba, rendendola entità viva, di un fascino quasi altèro e misterioso (The Secret Sharer), così in Still-Lifes è una forma personalissima di scrittura e lettura del Cinema a rendere riconoscibile la sensazione di un’oscurità immobile ed eterna bramata dall’uomo. Questa si instilla con cautela, si riconosce in particolari sequenze che intervengono a porre, lungo brevi segmenti, un’interpunzione al disordine delle sequenze-frammento.
In forma solo apparentemente paradossale, il tocco di una still life che sfrega lo schermo, e per l’appunto sembra compiersi, ci è dato nelle sequenze di esaurimento del bondage, nello scioglimento dei nodi dal corpo, negli intervalli cioè in cui assistiamo in dettaglio, con occhio ravvicinato, alla mano di Davide che allenta le corde dalla carne livida di Lucio Pat, gonfia e assieme tesa, obbligata all’immobilità. I gemiti e i sospiri solo appena repressi nel frangente della liberazione dalla costrizione, dello sgonfiamento del corpo, assieme all’inintelligibilità dello sguardo di Lucio Pat, recano l’impressione del fondo oscuro anelato dall’uomo e dalla ricerca di Ticozzi.
Non la rappresentazione di una storia, non la pratica documentaristica, ma appunto è questa scrittura per immagini a sussurrare l’intento della propria ricerca e a coglierne i frutti nel gesto di ritorno, di risveglio dolente alla vita. Davide ne è consapevole. Nel momento successivo alla liberazione, l’attimo più bello di tutto il film, dopo aver guardato all’esperienza di Lucio, l’uomo stringe in un abbraccio, piegato verso il basso, il suo corpo rannicchiato e sfibrato, e in questo moto d’amore ne assimila e custodisce il segreto.
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