
Undine: un amore per sempre – Folclore e melodramma a Berlino
Christian Petzold è sicuramente un regista di ammirevole mestiere, l’inizio in medias res di Undine: un amore per sempre, in concorso alla 70ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, è qui per ricordarcelo. Un intenso primo piano sulla protagonista è sufficiente in una manciata di secondi a farci capire l’esito e il tono di una scena – la rottura tra due fidanzati – partendo dalla sua conclusione. Parliamo di un autore che ha fondato un’intera filmografia sul muoversi con incredibile destrezza su un terreno paludoso come quello del melodramma, affidandosi a una regia rigorosamente classica e un’attenzione maniacale nella direzione degli attori. Sarebbe un inizio perfetto se non si concludesse con la protagonista, serissima, intenta a scagliare un monito involontariamente comico all’ormai ex fidanzato: se non continuerà ad amarla sarà costretta a ucciderlo.

Nome di punta emerso dalla scena del nuovo realismo tedesco e sicuramente tra i più premiati (Orso d’argento per la miglior regia a Berlino e nomination all’Oscar al miglior film straniero con La scelta di Barbara), Petzold sceglie la Berlino contemporanea come ambientazione per il suo nuovo racconto di amori spezzati e incontri sospesi tra vita e morte. Qui, la protagonista di nome Undine, di mestiere storica della città e fresca della separazione avvenuta in apertura, incappa in Christoph, un palombaro industriale, facendosi letteralmente travolgere da una storia d’amore con lui.
Il loro incontro infatti è sancito di fronte a un enorme acquario che si frantuma in mille pezzi, inondandoli e creando il primo dei tanti rimandi simbolici di cui è intrisa la storia d’amore tra i due. Partendo da questo classico setting da melò, Petzold intinge il film di una ambigua componente fiabesca, il nome della protagonista si riferisce infatti al mito delle ondine, creature fantastiche del folclore germanico comunemente rappresentate come esseri femminili immortali simili a delle sirene di fiume.

Petzold procede per i restanti novanta minuti su un precario equilibrio, tra un melodramma contemporaneo di lodevole fattura e timidi tentavi di immersione in sequenze oniriche fantastiche, virando sul finale decisamente per quest’ultime e fermandosi più di una volta sul confine del ridicolo involontario. Undine tratta anzitutto di una storia d’amore travolgente, di corse in treno appassionate e grandi gesti dettati dai sentimenti, rimanendo però elegantemente compassata nel modo in cui è girata e raccontata, marchio distintivo di Petzold, complice anche una splendida tessitura musicale al pianoforte adattata dalle opere per clavicembalo di Bach.

Il lato fantastico rimane invece un ambiguo elemento spurio, apprezzabile nelle audaci intenzioni ma che lascia l’impressione di un lavoro svolto senza la sufficiente convinzione per renderlo funzionale al racconto, tra banali rimandi simbolici e una non troppa ispirata rivisitazione del suddetto mito delle ondine. È un peccato, perché alcune sequenze si dimostrano decisamente riuscite, in particolare quelle ad ambientazione subacquea, capaci di regalare dei genuini momenti di meraviglia, complice un interessante e attento lavoro sul sonoro. Più la storia procede però e la componente fantastica prende il sopravvento, con esiti pericolosamente ridicoli, più Petzold diventa indeciso su che strada far prendere al suo film, lasciandoci alla fine con un leggero sapore amaro per l’incompiutezza di questa ibrida operazione cinematografica.

Discorso diverso invece per gli ampi rimandi simbolici alla città di Berlino e la storia dei suoi edifici. Anzitutto con le numerose sequenze di Undine al lavoro, intenta a spiegare i mutamenti della città avvenuti nell’ultimo secolo a una platea di visitatori, portando a varie analogie nell’identità stessa dell’amore che coinvolge i due protagonisti. Nel caso della regia, è dove Petzold ci regala i suoi momenti più fantasiosi, riuscendo a rendere gli scorci della capitale veri e propri protagonisti della drammaturgia.

In conclusione, come di consueto nella filmografia di questo regista, un plauso va agli attori, in particolare la protagonista Paula Beer, premiata per questa interpretazione con l’Orso d’argento per la migliore attrice, bravissima nel donare complessità al ruolo fiabesco di Undine attraverso poche pennellate di sguardi. La sua performance e quella di Franz Rogowski, interprete di Christoph, sono capaci di reggere egregiamente la fantastica confezione da melodramma imbastita da Petzold. Purtroppo non sono sufficienti a salvare del tutto questo apprezzabile ma non pienamente riuscito tentativo di fiaba metropolitana.
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