
La parte più debole – NIDOCITTÀ di Francesco Maria Terzago e Alessandro Ratti
Un effetto poco visibile (per assuefazione o pigrizia), ma assolutamente percepibile nella vita “post-lockdown”, è sicuramente la trasformazione e distorsione del concetto di «spazio»: dello spazio cittadino e pubblico, dello spazio privato e casalingo, dello spazio digitale affollato e fluido. La pandemia ha sottratto all’uomo le piazze, le strade, i negozi (eccetto i supermercati), in sostanza i luoghi d’aggregazione e d’incontro quotidiani in una situazione non emergenziale; in un processo inverso, e scontato, l’umanità si è riversata necessariamente, con risultati positivi e negativi, nel non-luogo di internet e del web, che, come fa notare Serena Ciranna in un articolo intitolato The next thing: accelerazione tecnologica e digital divide ai tempi del Covid-19 apparso il 6 aprile su Le parole e le cose² , da «forma di asocialità e apatia» ci è sembrato evolversi in una forma di impegno civile e responsabilità verso i propri connazionali.
La quarantena ha dunque allontanato le relazioni umane su un piano spaziale, ma ha accelerato i tempi di risposta e di connessione, e soprattutto di condivisione: di immagini, video, informazioni, progetti e altro. Infine, e non ultimo, l’isolamento coatto ha costretto numerosi artisti a ripensare alle loro modalità espressive, nonché alle modalità di produzione e fruizione di un prodotto artistico ai tempi del distanziamento sociale (che, per certi versi, può sembrare un ossimoro). Si è di conseguenza intensificato, per musicisti, fotografi, videomaker, scrittori ecc., il bisogno di mediare attraverso un dispositivo elettronico la propria attività, dando vita ad esperimenti e ibridismi, come, per l’appunto, NIDOCITTÀ (qui, per vederlo), dove i testi di Francesco Maria Terzago (poeta e scrittore) si uniscono all’animazione di Alessandro Ratti (scenografo teatrale e illustratore) e alle musiche di P.L. Nothere.
Come spiega la locandina del progetto, NIDOCITTÀ, è «racconto» e insieme «animazione», che tenta di mostrare «il rapporto tra natura e cemento» e il suo variare «quando il ritmo delle attività umane rallenta e quasi diventa impercettibile». Alla realtà ristretta, circoscritta e ridotta ai minimi termini dell’uomo in quarantena fanno da contraltare il volo e le acrobazie aeree degli uccelli, che progressivamente, non solo nel racconto ma anche nella realtà, come testimoniato perfino da qualche telegiornale, hanno riconquistato uno spazio di vita, quasi sociale, che prima apparteneva esclusivamente alla presenza ingombrante dell’uomo (l’inversione dei rapporti di potere diventa capovolgimento dei rapporti di spazio abitativo: gli uccelli ritornano in città e gli uomini regrediscono al nido). Dico sociale in quanto la narrazione diaristica, scheggiata, a mo’ d’appunto annotato velocemente per strada durante una passeggiata tra un controllo e l’altro della polizia, riproduce la micro-quotidianità conflittuale d’un gabbiano e un piccione di La Spezia («Il gabbiano assale il piccione come se i sampietrini fossero la superficie inerte del golfo. Lo colpisce alla schiena, o nel collo, con un fendente. Una corona di piume cade e le ali gli si spalancano un’ultima volta»). Le vicende dei due volatili, nell’intento degli autori, vorrebbero essere specchio, «cifra totalizzante degli accadimenti che hanno riguardato il nostro paese»; e nonostante la volontà sia quella di cogliere allegoricamente una condizione collettiva (che secondo me s’affaccia debole nel racconto), il testo prosegue in un’altra direzione, forse più suggestiva, cioè quella che porta verso gli ambienti urbani abbandonati dall’uomo, verso le eccedenze dell’attività umana che s’esprimono negli scarti dei «fast-food», nei «bidoni» e nei vuoti «ristoranti».
La postura narrativa di Terzago – nonché il suo sguardo -, oltre che per la comunanza dell’oggetto del racconto, ricorda l’ultimo Saba, non tanto nei toni, quanto nelle affinità delle condizioni di partenza da cui il testo prende forma; da un lato, negli ultimi sforzi poetici sabiani come Quasi un racconto o, per l’appunto, Uccelli, l’approssimarsi della morte, la vecchiaia, qui l’esistenza bloccata, lo stallo, l’impotenza di fronte ad una contingenza troppo grande per essere superata (anch’essa in un certo senso mortifera). Insomma entrambi scrivono da una posizione limitata, dalla «parte più debole», come scrive Terzago nell’ironico settimo “nido”, ed entrambi si confrontano con dei volatili, fino a vedere nella loro esistenza una corrispondenza con la vita umana. Illuminanti a questo proposito i versi di Saba da L’uomo e gli animali: «Con invidia/ (tu pensi con disprezzo) guardi/ gli animali, che immuni di riguardi/ e di pudori, dicono la vita/ e le sue leggi. (Ne dicono il fondo)». Ovviamente rimane una curiosa e lontana affinità, perché Terzago ha altri obiettivi rispetto al poeta triestino: cogliere una migrazione, un insediamento, e indirettamente mostrare un internamento, una fragilità umana che non può essere taciuta, nonché il ribaltamento tra la dimensione del nido e quella della casa/città.
Bisogna però tornare alle modalità espressive di NIDOCITTÀ, perché i testi di Terzago sono accompagnati, come ho accennato in precedenza, dalle animazioni di Alessandro Ratti, che, a dispetto della loro semplicità figurativa, sintetizzano la ciclicità di un gesto (appuntare i pensieri su un immaginario foglio di carta) e la “serializzano” in episodi, in brevi frame da lockdown da accartocciare e buttar via. Insieme alle note del pianoforte di P.L Nothere si compone allora una serie animata – o illustrata -, che è anche diario da flâneur, abbozzi di un racconto su un’altra specie. Parole e immagini si mescolano attraverso messaggi e videochiamate, e lo spettatore fruisce di questa unione nello spazio di Youtube e dei canali social dei due autori, dove giornalmente dal 15 giugno sono state caricate le puntate. Ma, si capisce bene, la definizione di «puntata» o di «episodio» non chiarisce né le intenzioni né l’essenza di questi racconti. Proprio Francesco Maria Terzago, in un suo post di Facebook in cui annunciava la pubblicazione dell’undicesimo “nido”, ha trovato credo il modo migliore per chiamarli: «stanza». La stanza in cui ogni cittadino è stato rinchiuso per mesi; la stanza come metafora del racconto, che ha un’entrata e un’uscita; infine la stanza come spazio intimo, come la pagina di un taccuino o di un diario.
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